Alcuni romanzi non si limitano a raccontare una storia: vogliono essere la radiografia di un'epoca, trasmettere un'esperienza filosofica, analizzare l'umanità. E a volte vogliono essere tutto questo assieme: leggendo La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie) - il migliore dei 12 finalisti dello Strega - si ha l'impressione che il numero dei temi affrontati sia infinito; il che non vuol dire che questo romanzo potente non abbia una struttura riassumibile: vi si narra infatti la vicenda di Ivo Brandani, background filosofico e politicamente a sinistra, che abbandona gli studi umanistici per intraprendere una fulminante carriera di ingegnere negli anni del boom. Caduto in disgrazia, vive altre esperienze professionali, fra cui una particolarmente catastrofica in una «Città di Dio» fatta solo di cunicoli e fogne che un giorno, ostruendosi, seppelliscono l'urbe di fango. Riuscito a sopravvivere al disastro, Ivo sta per terminare la sua carriera con una missione fin troppo allusiva: deve volare in Egitto per ricostruire artificialmente il reef di Sharm, visto che siamo nel 2015 e la barriera corallina è stata spazzata via dall'inquinamento. È proprio in aereo, incastrato su un sedile di classe turistica, imbottito di Tavor, che Brandani rievoca gli episodi salienti della sua esistenza, abbandonandosi a un delirio rapsodico nel quale restano invischiati sessant'anni di storia italiana.
Ogni «fase» ha il suo nume tutelare: Conrad per i viaggi africani, Roma senza papa di Morselli per le pagine dedicate alla capitale. I tre puntini di sospensione, marchio di fabbrica di Céline, costellano il torrenziale monologo, mentre l'homo faber di Max Frisch sorveglia la deriva morale e lo spettacolare tracollo del protagonista. A dispetto della pellicola postmoderna che ricopre le pagine di Pecoraro, però, la collocazione ideologica dell'autore è chiara: il suo romanzo trasuda indignazione per il dissolvimento della civiltà occidentale.
Viscerale nostalgia di una società «organica», nausea per l'utilitarismo, fastidio verso una secolarizzazione che sta cancellando quella che per un paio di millenni è stata l'immagine dell'uomo: come Antonio Scurati, tradizionalista inconfessato, come Walter Siti che vince lo Strega con un romanzo in cui si dice fin dal titolo che resistere non serve a niente, anche Pecoraro si è ritrovato dall'altra parte dell'emiciclo. È un po' di tempo che gli scrittori italiani di sinistra, in realtà, sono di destra.
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