Bernhard è un grande. Quindi non un poeta

«Si diventa maturi quando si smette di scrivere poesie» sentenziò Friedrich Nietzsche, in genere pungenti e spiritose (come «non ti gonfiare/ che una punturina basterebbe a farti sgonfiare»). in effetti la regola è questa: i grandi scrivono poesie da giovani, i medi da vecchi, i piccoli le scrivono sempre, diventando poeti, un flagello dell'umanità. Michel Houellebecq ha scritto poesie tra un romanzo e l'altro, perché non sapeva cosa fare.

Giacomo Leopardi stesso definiva la poesia come una forma letteraria costruita a tavolino utilizzando facili suggestioni umane: nello Zibaldone la sua opera più importante, smonta ogni illusione, perfino quella dei suoi stessi versi, definiti una forma di intrattenimento. Grazie all'editore Nicola Crocetti (un nobile uomo d'altri tempi, coraggioso e meno insensibile di me, ha dedicato tutta la vita a mettere su una casa editrice che, a onor del vero, è un'istituzione della cultura italiana) possiamo verificare quanto neppure un genio come Thomas Bernhard eccepisca dalla regola: escono in questi giorni i versi giovanili dello scrittore austriaco (per fortuna non senili, altrimenti avrebbe rovinato il finale, come quelli che si convertono in punto di morte), il poemetto intitolato Sotto il ferro della luna , scritto nel 1958.

Alcuni critici poetanti si sono già sperticati: che bella la poesia di Bernhard, è un'opera autonoma, non i primi tentativi letterari di uno scrittore alle prime armi, non un germoglio acerbo da cui prenderà vita l'opera successiva.

Come no, infatti non sembra neppure Bernhard, sembra Sandro Bondi, e Bernhard stesso ha abbandonato subito i versi per produrre, nel 1963, un capolavoro come Gelo , e a ruota un altro capolavoro come Correzione , e ogni altro romanzo (inclusa la sua autobiografia) fino a Estinzione (sottotitolo molto emblematico: uno sfacelo) pubblicato nel 1986, due anni prima della morte. Nel suddetto poema tanti versi ispiratissimi, tipo: «Oh non farti polvere/ inesauribile nella tua fama fino al confine delle stelle./ di notte balzeranno rivolti alle falci i versi/ e infilzeranno i tuoi occhi/ nell'immortalità./ Oh non farti polvere./ Porta con vigore i remi alle tue ossa/ e abbatti il vento/ che non piange né l'est né l'ovest,/ ma distrugge il tormento e mai tormenta». Non lo so, io con i remi nelle ossa e i versi rivolti alle falci mi ci addormento sopra quando va bene, quando va male mi prende un attacco di panico, mi sento come se mi avessero inchiodato sulla lapide di un cimitero. Viceversa i poeti sdilinquiscono in estasi, infatti Daniele Piccini sul Corriere della sera già ci vede un Bernhard finalmente digeribile e delle bellissime invocazioni mistiche, quando il Bernhard dei romanzi, dal primo all'ultimo, è un distruttore, un oppositore della cultura, della famiglia, della procreazione, della vita stessa, e lì sta la sua opera, di anno in anno sempre più estrema e radicale. E poi, ancora riguardo ai versi, c'è «Lui da solo già al mattino/ con gli uccelli sotto il cielo/ e diceva sotto il cielo/ e diceva a se stesso che l'inverno inverdisce/ quando i fiori germogliano sui pali di legno». E ancora: «Il miele amaro della mia tristezza/ stilla sull'egra terra», «tra la caducità di meste primavere/ fanciulle in mantelli neri che odorano tutte di mela», eccetera eccetera.

Non ho mai capito cosa si debba fare di fronte ai versi, se esalare un verso di risposta di stupore, restare imbambolati tra un a capo e l'altro, declamarli a alta voce con aria meditabonda, emozionarsi, sospirare, gemere, intristirsi, palpitare, sbadigliare, masturbarsi. La verità è che Thomas Bernhard nasce quando muore il poeta, cioè quasi subito.

Se Bernhard si fosse fermato lì non sarebbe mai diventato Bernhard, al massimo Eugenio Montale, e io non so che farmene neppure degli Ossi di seppia , tutt'al più mi viene in mente di infilarli nella gabbietta di un canarino che non ho.

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