Culicchia sì che scrive come le donne (vere)

Io sarò maschilista, ma quanto sono lagnose le donne quando parlano delle donne, non ce n'è una che non mi annoi a morte, non c'è un romanzo di una donna italiana morta o vivente con qualche pretesa artistica che non rivendichi qualcosa, uno status sociale, una sensibilità, la difesa della vita, una rivoluzione dell'utero. Invece Madame Bovary poteva scriverla solo Gustave Flaubert, Isabel Archer solo Henry James, Anna Karenina solo Lev Tolstoj, Albertine Simonet solo Marcel Proust. Ci sono le donne di Jane Austen, e Virginia Woolf, e George Eliot, ma non sono la stessa cosa, e in ogni caso da noi non siamo mai andati oltre i porci con le ali di Lidia Ravera, le donne incartapecorite di Dacia Maraini, le giovani promesse subito smentite che una volta vogliono i pantaloni, un'altra cento colpi di spazzola, un'altra se non ora quando: anche mai, grazie.
Insomma, non vorrei prenderla troppo alla larga ma Venere in metró (Mondadori, pagg. 255, euro 17), l'ultimo romanzo di Giuseppe Culicchia, è il romanzo che avrebbero potuto scrivere Guia Soncini o Selvaggia Lucarelli se fossero state scrittrici, è Nicole Minetti se avesse uno stream of consciousness estrapolabile, o un bestseller di Sophie Kinsella ma più pop e riscritto con la frivolezza colta di Alberto Arbasino, una sorta di sorella d'Italia prêt-à-porter.
È la storia di Gaia, trentottenne, moderna Bovary molto fashion-addicted sull'orlo di una crisi di nervi ai tempi della crisi economica e presto in crisi di tutto: in crisi di mezza età, in crisi con la figlia adolescente in fase Twilight, in crisi con il marito al quale ha inviato per sbaglio un sms destinato all'amante, in crisi con l'amante che non vuole più lasciare la moglie. In crisi perfino con la psicologa, le cui sedute finiscono sempre con un consiglio zen e un lapidario: «Sono trecento euro». Licenziata dalla società per cui organizzava eventi, la Eventi Avanti (per aver scambiato Dubai con Mumbai e aver mandato i clienti arabi in un ristorante kosher credendoli indiani), fiera di aver inventato l'«apericena», Gaia è ora disoccupata e il marito inseguito dagli usurai: ha dilapidato un patrimonio giocando a Texas Hold'Em. Non serve trovare conforto in altre avventure, ormai perfino i diciottenni usano il Viagra e «proprio come qualche stagione fa il marrone era il nuovo nero, oggi l'uomo è la nuova donna. Però, senza palle». Qua e là non mancano piccole perfidie d'autore, chi vuole intenderle intenda: la fashion-victim non legge le Cinquanta sfumature di grigio ma solo «Saviano o Volo o Giordano» perché li trova sexy, adora Guia Soncini «qualsiasi cosa significhi quello che scrive», scrive a Natalia Aspesi ma impaziente la sostituisce con il Forum alFemminile.com.
È interessante l'evoluzione letteraria di Culicchia, uno che parla poco a vanvera, non partecipa alle diatribe stupide dei letterati italiani, e tra un romanzo e l'altro traduce, dove gli altri autori passano il tempo presentandosi i libri gli uni con gli altri o twittando piagnistei politici. Fa pensare anche al rapporto tra letteratura e talento: dove Edoardo Nesi traduce David Foster Wallace e scrive i romanzini che scrive, Culicchia al contrario traduce Bret Easton Ellis e Mark Twain e ne assorbe il meglio, qui dando vita a una divertentissima commedia contemporanea, una Sex & The City ambientata in una Milano da bere dove si affoga nei debiti e non si rinuncia a un paio di scarpe: «Alcune non le ho mai messe, le ho comprate solo per il gusto di possederle e per il piacere di comprarle, talvolta assai vicino a quello dell'eccitazione sessuale, ricordo in particolare due anni fa acquistando un paio di Jimmy Chou mi sono letteralmente bagnata, arrivando quasi all'orgasmo».
È un campionario di marche, Armani, Missoni, La Perla, Intimissimi, Prada, Moschino, il cafonal-cheap contro il radical-chic («che ha strastufato»), ma a differenza dell'ellisiano Glamorama l'angoscia esistenziale e materiale ricompare con le bollette da pagare, le rate del mutuo, i pignoramenti, la paura di invecchiare e diventare poveri. Finché Gaia all'improvviso si trova a pensare: «so che dovrei aggiornare il mio profilo Facebook e twittare qualcosa, ma per la prima volta ho paura di farlo».

Segue epilogo appena appena edificante, difficile da mandare giù per me che devo ancora digerire lo shock del De profundis di Oscar Wilde, cioè dopo tanto spasso avrei preferito un finale tragico o farsesco o nessun finale, ma forse così doveva essere perché Culicchia mica è stronzo come me: sono le illusioni perdute di una Carrie Bradshow ai tempi dello spread che si rassegna a andare alla Caritas, e comunque non è detto si rassegni per molto. Da leggere in ogni caso con l'accompagnamento di Far l'amore di Raffaella Carrà, ma remixata da Bob Sinclar.

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