Controcultura

Gli eroici "teppisti" di via Thököly

Molti avevano precedenti penali. Contesero ai russi la zona più pericolosa di Budapest

Gli eroici "teppisti" di via Thököly

S essant’anni fa, la sera del 29 ottobre 1956, all’insaputa l’uno dell’altro, si incrociarono i destini di Palmiro Togliatti e István Klauber, un oscuro sfaccendato ungherese. Mentre il capo del Pci inviava un telegramma a Mosca sollecitando l’invasione sovietica - «La mia posizione è che il governo ungherese si muoverà irreversibilmente verso una direzione reazionaria» - nella questura del XIV distretto di Budapest, in un freddo pungente, István Klauber si arruolò nella nascente Guardia Nazionale. Nominalmente elettricista, in realtà si era fatto mantenere dalle amiche prima di finire in un campo di prigionia del regime. Perché prese la decisione fatale? Probabilmente per gusto di sfida e desiderio di riscatto. Klauber era il capo riconosciuto di una banda di «teppisti», quasi tutti con precedenti penali, abituati a riunirsi nei dintorni della stazione ferroviaria Keleti. Nello stanzone, dove quella sera erano radunati i volontari, i suoi compagni si riconoscevano a distanza fra ex poliziotti, universitari, operai e borghesi. Di età compresa tra i venti e i quarant’anni, in maggioranza condannati per reati comuni, avevano portato con sé alcune amiche già incappate nelle retate della buoncostume: una compagnia da bettola. Per loro, alla pari degli altri ignari presenti, era già scattato il conto alla rovescia innescato dalla lettera di Togliatti: li aspettavano o l’arresto o l’esilio o la morte. Fa uno strano effetto, oggi, parlare di quei «teppisti» come di eroi. Ma strane sono le giravolte della storia: di loro si sarebbe saputo poco o nulla se lo storico László Eörsi (tradotto in italiano da Giuseppe Lian) non ne avesse pubblicato il diario delle imprese. Che cosa avrebbe pensato, Togliatti, se avesse incontrato questi pittoreschi nemici dell’impero comunista? Probabilmente avrebbe storto il naso di fronte a personaggi come Ferenc Ludányi, autista di autobus già congedato dall’esercito con l’accusa di furto; o Károly Keller, facchino un po’ protettore di prostitute e un po’ gigolò; o ancora József Németh, idraulico alcolista; oppure János Csermák, operaio colpevole di aver colpito un ufficiale sovietico in una bettola. Per non parlare di Ferenc Kovács, addetto alla pulizia delle fogne, o di Lajos Gál, borseggiatore. E c’erano poi le donne: Mária Magori, addetta alle pulizie; Irén Gál Sándorné Parák, bracciante; Jánosné Kálmán, operaia; Magdolna Jancsó, appena diciannovenne. Tutti di opinioni politiche vaghe, ma animati dal desiderio di «fargliela vedere, ai russi». Per prima cosa, requisirono un camion Csepel e, sventolando le bandiere nazionali, se ne andarono in giro a gridare slogan del tipo: «Abbasso l’Ávó!» (la polizia politica comunista). «Evviva Imre Nagy! Russi a casa!». Quindi occuparono un palazzo, il Közgazdasági Technikum di via Thököly: toponimo destinato ad accompagnarli per sempre. Perché fu in quella via che sfidarono gli invasori sovietici, disarmarono poliziotti e militari, eressero barricate all’incrocio con via Dózsa György, aprirono il fuoco dalle finestre con l’arsenale che avevano rastrellato: cinque o sei mitra, una decina di mitragliatrici e una settantina di fucili. Là, con l’aiuto delle donne, portarono la benzina presa da un distributore, ricavandone duecento bottiglie Molotov. Quando, la mattina del 4 novembre, si presentarono le truppe sovietiche, trovarono pane per i loro denti. Nell’inferno dei tiri incrociati, i carri cominciarono a saltare in aria, dato che tra le basi di via Thököly, ai numeri 42 e 44, c’era dell’esplosivo nascosto, comandato a distanza da uno spago, e fasce di granate brillavano al momento giusto. La strada era cosparsa di olio, in modo da far perdere aderenza ai blindati, che cominciarono a sbandare. E contro i veicoli vennero diretti getti di benzina attraverso tubi di gomma. Quelli furono i giorni dei ragazzi di Thököly, moderna incarnazione di quelli della via Pàl, ma con un che di maledetto, da «angeli con le mani sporche». Soltanto nei combattimenti del 6 novembre, secondo stime di Mosca, caddero intorno a via Thököly una cinquantina di ufficiali e soldati sovietici. Poi lo scontro assunse contorni crudi, barbarici: insorti e sovietici si inseguivano nelle cantine e nei tetti; i carri armati russi, pur bruciando, prendevano a cannonate le finestre; nella confusione alcuni negozi furono saccheggiati al grido: «Meglio noi che i russi!». Un gruppo di giornalisti italiani, durante una pausa dei combattimenti, riuscì a intervistare István Klauber, descrivendolo così: «Disteso su due poltrone, un colbacco di pelo in testa, un mantello stracciato, sporco di sangue che gli cola ancora da una ferita, tiene nella mano destra una lattina con del cognac, con la mano sinistra accarezza la canna del mitra. È una figura infernale e sublime, un eroe di Hemingway». Ma il picco emotivo fu raggiunto quando, la mattina del 5 novembre, una delle insorte, Jánosné Kálmán, proclamò di essere pronta ad andare a letto con il primo che avrebbe ucciso un soldato sovietico (e, a quanto se ne sa, mantenne la promessa). Continuarono così per quattro giorni, senza mollare un centimetro della via Thököly, facendo sparire i mezzi nemici distrutti e i corpi dei sovietici per non mettere sull’avviso quelli in arrivo, mezzo ubriachi per non pensare troppo alla loro sorte. Mentre la stampa occidentale si lanciava in descrizioni epiche («crocicchio infernale», «quadrivio fatale») i ragazzi della via Thököly riuscirono persino a lanciare un proclama alla radio di Budapest («Vogliamo restare degni della memoria degli eroi del ’48!») in cui, deposti i panni da teppisti, indossavano quelli degli eroi. Che cosa li animasse non è chiaro: forse una falsa voce sull’imminente arrivo di paracadutisti inglesi. Se ne presentarono, invece, di sovietici, e si combatté ancora duramente fino alla mattina del 9 novembre, quando i ragazzi della via Thököly, circondati da forze soverchianti, deposero le armi. In una decina, fra essi Klauber, riuscirono a riparare all’estero.

La maggioranza del gruppo invece fu arrestata: dodici impiccati, gli altri - donne comprese - condannati a lunghi anni di prigione. A tutti, indipendentemente dalle fedine penali, l’Ungheria di oggi riconosce una sorta di «battesimo nazionale nel sangue»

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