D avanti alla morte di un artista dovrebbe sempre prevalere il rispetto per il dolore di familiari ed estimatori. E dunque è meglio lasciare da parte le storie - a volte amare - accumulate nel tempo. Claudio Abbado è cresciuto in una famiglia dove la musica era una cosa seria. La madre, Maria Carmela, gran governatrice di casa e il padre, Michelangelo, professore di violino al Conservatorio di Milano e direttore di un'intraprendente formazione cameristica, molto si adoperarono per avviare anche il figlio terzogenito sulla giusta strada. Intelligenza e temperamento siciliani innestati alla laboriosa tenacia milanese produssero uno studente che ha seguito un corso degli onori con pochi eguali. Il «ragazzo di Milano» (la definizione non è nostra ma di un insigne direttore d'orchestra, Vittorio Gui) viene nominato a 35 anni direttore musicale della Scala. Il suo repertorio sarà oculatamente scelto. Di Rossini esplora il genio comico con Jean-Pierre Ponnelle (Barbiere, Cenerentola, Italiana in Algeri), sostenuto dal lavoro testuale delle edizioni critiche e da compagnie di canto eccelse, dove spiccano primedonne del belcanto come Teresa Berganza e Lucia Valentini-Terrani. Così anche i titoli verdiani, circoscritti ai capolavori ben noti, rimangono consegnati a spettacoli trionfali con la regia di Giorgio Strehler (Macbeth e Simòn Boccanegra), osannati fino a cancellare anche il dato storico di una loro precedente «vita interpretativa». Quando la Scala scelse Riccardo Muti, Abbado assunse, per un periodo non lungo, la prestigiosa guida della Staatsoper di Vienna, città dove aveva studiato direzione d'orchestra con un grande docente, Hans Swarovsky e teatro guidato (e profondamente riformato) all'inizio del Novecento dal prediletto musicista-direttore d'orchestra, Gustav Mahler. Lì replicò alcuni dei cavalli di battaglia milanesi, aggiungendovi, fra l'altro, la perla del Fierabras di Schubert e il già sperimentato Viaggio a Reims, opera-cantata di Rossini, riesumata al Rossini Opera Festival di Pesaro con una compagnia di canto a dir poco stellare. Dopo Vienna, Berlino, successore del Divo Karajan ai Philharmoniker (1989-2002), e centinaia di concerti e più rare sortite operistiche (gli estremi capolavori di Verdi, Otello e Falstaff, e Mozart). Non si può dimenticare il periodo (nel decennio '79 - '88) alla testa della London Symphony, con cui realizzò numerose registrazioni integrali (fra le tante, Mendelssohn, Schubert e Stravinskij) e le presenze assidue a Chicago (soprattutto per Mahler) in veste di principale direttore ospite. Strenuo difensore della Nuova Musica di allora (l'amico Luigi Nono, Ligeti, siamo negli anni Settanta), Abbado ha indirizzato la sua attenzione anche su Musorgskij (il Boris versione originale), sulla Carmen, sempre con la grande Teresa Berganza, e sulla Seconda scuola di Vienna (Schoenberg, Berg, Webern), oltre al sempre presente Mahler. Con l'insorgere della malattia, ha lavorato soprattutto con orchestre di fiducia, costituite dall'amalgama di solisti famosi, giovani diplomati e prime parti delle migliori orchestre del mondo (al Festival di Lucerna, a Ferrara con l'Orchestra Mahler, a Bologna con l'Orchestra Mozart), esplorando il repertorio del classicismo viennese, ma anche quello luminoso di Pergolesi. Un elenco speciale meriterebbero le collaborazioni, non solo con amici sodali come il compianto Dino Ciani, o Maurizio Pollini e Martha Argerich, ma, restando al pianoforte, con artisti della levatura di Rudolf Serkin e Friedrich Gulda. Se giudicassimo solo dal curriculum Abbado ha fatto di più anche di Arturo Toscanini, con buona pace di quanti hanno sottolineato più la forza volontaria del suo far musica che la cosiddetta «natura».
E poi, come diceva Winston Churchill, il destino di un uomo è il suo carattere. E in Claudio Abbado il carattere era talento. «È morto, pace per lui pregate», domanda Fiesco ai genovesi nell'ultimo verso del prediletto Boccanegra. Pace, rispondiamo, in questa ora di lutto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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