Cultura e Spettacoli

Franzen contro la Rete. La religione dei "social" distruggerà la cultura

Lo scrittore americano ne "Il progetto Kraus" mette alla berlina tutti i peggiori aspetti della rivoluzione digitale in corso. Ma, per ideologia, non identifica i colpevoli

Franzen contro la Rete. La religione dei "social" distruggerà la cultura

Una nuova religione moderna? Si chiama Rete. Della Rete non solo non si può parlare male, è una specie di nuova mistica personificata, è l'analogo della Natura per il panteista: la Rete dice, la Rete fa, chi tocca la Rete muore. Non solo Grillo, che sulla Rete ci ha fondato un partito, perfino il papa si è messo in Rete, ha pensato bene di allearsi, una religione lava l'altra. Al riguardo Jonathan Franzen ha da poco scritto un libro subito sbranato dalla Rete, si intitola Il progetto Kraus (appena pubblicato in Italia da Einaudi, pagg. 248, euro 19,50) e di fondo propone un parallelismo tra le critiche di Karl Kraus al giornalismo dei primi del Novecento e Internet. Nella vecchia classificazione di Umberto Eco tra apocalittici e integrati, Franzen sarebbe collocato dalla parte degli apocalittici, ed è difficile dargli torto, e lo dico io che sono dipendente da ogni tecnologia. Toglietemi tutto ma non la Playstation. Eppure Franzen mette il dito nella piaga. Denuncia «un mondo in cui avranno successo le opere di chiacchieroni, twittatori e millantatori», verissimo. Se la prende con Amazon, che «è sulla buona strada per trasformare gli scrittori in operai senza prospettive come quelli che i suoi fornitori impiegano nei magazzini», d'accordo. Si allarma perché «i recensori responsabili si estinguono, gli autori dei romanzi sono costretti ad autopromuoversi, le sei maggiori case editrici, le Big Six, vengono uccise e divorate da Amazon», altrettanto vero.

Tuttavia il punto debole dell'apocalittico Franzen è servirsi di Kraus per accusare la modernità e il capitalismo, per non smentire la sua visione di sinistra tradizionalmente ostile alla tecnologia. È qui che sbaglia bersaglio. Di poco, ma lo sbaglia. Kraus, il Grande Odiatore, aveva individuato il nemico nella sostituzione giornalistica dell'oggettività con la soggettività. In questo il feuilleton è simile al blog, al tweet, allo status di Facebook, osserva Franzen. Ma la Rete si spinge ben oltre. È la fine di ogni principio di autorevolezza intellettuale, dove qualsiasi blogger o twittatore è più autorevole di qualsiasi intellettuale o scrittore o editorialista professionista, e non deve rispondere di niente. Il limite di Franzen è accettare questa diagnosi ma riportarla di nuovo al cliché progressista del potere che controlla le masse dall'alto. Nessuno obbliga nessuno a andare su Amazon e non in libreria. In fondo chi decreta l'autorevolezza o meno di un'opinione? La Rete stessa. Applicato al pensiero razionale non sembra così grave, ma solo perché non si dà nessuna importanza al pensiero, anzi ci sentiamo ripetere tutti i giorni l'idiozia secondo cui «le opinioni si rispettano»: suona come un principio di Voltaire ma è una stronzata. Sarebbe accettabile se l'opinione fosse tale, e distinguibile da un pensiero oggettivo. Credere che non sono esistiti i campi di concentramento, o che l'uomo non è mai stato sulla luna, o che la Terra è piatta e ha cinquemila anni e non quattro miliardi e mezzo, rientra nel campo delle bufale o delle opinioni? Insomma, se il vostro medico vi curasse con le opinioni ci andreste lo stesso? Eppure la maggior parte delle persone preferiscono informarsi leggendo un blog, credendo che non pagare qualcosa sia un bene, e anzi ritenendo che un blogger sia più credibile di un qualsiasi professionista dell'informazione, corrotto con il sistema. È come quando Aldo Busi andò all'Isola dei famosi e venne zittito da un anonimo tronista che gli disse «Ma parla come magni». Conosco dei ventenni che non saprebbero dire chi è Aldo Busi ma conoscono benissimo Yotobi, un youtuber che tra i giovani è più famoso anche di Paolo Bonolis.

Se Franzen uscisse dalla retorica classica del potere (di sinistra ma anche di destra) vedrebbe invece che la modernità non c'entra, non da sola: piuttosto è l'ideologia sessantottina a essersi fusa, in un certo momento storico, con il capitalismo. E non come in Cina, peggio. Ne ha conquistato i mezzi di produzione intellettuale in modo virale. E inoltre pretende l'impunità: se la Cassazione stabilisce che anche un insulto su Twitter è diffamazione a mezzo stampa, si grida al liberticidio. Cioè: se lo scrivi su un giornale devi pagare, se lo scrivi in Rete no. Pur volendo eleggere in Rete perfino i presidenti della Repubblica.

Non per altro la Rete è diventata il Totem dei movimenti antagonisti. La Rete non si tocca. In Rete sono tutti uguali. In Rete deve essere tutto gratis: libri, serie televisive, musica, film, videogiochi. L'hai visto in DVD? Ma sei matto, l'ho scaricato dalla Rete. L'hai letto sul giornale? No, l'ho letto in Rete, mica spendo per comprare un quotidiano. Perfino il sapere enciclopedico è in mano alla collettività anonima, perché con Wikipedia tutti sanno tutto, e da chi è fatta Wikipedia? Da tutti, dalla Rete. Lo stesso Philip Roth non può aggiornare un errore della sua stessa voce perché non autorevole quanto la Rete, lui è solo Philip Roth. Io stesso scrissi un articolo contro Wikipedia, e Wikipedia ha cancellato la mia voce, deportato in Siberia, è rimasto solo: «Massimiliano Parente, scrittore», come una lapide. Mi è rimasto l'account Facebook, che oggi conta più della carta d'identità, ma vi possono chiudere un account per una segnalazione anonima e non potete protestare con nessuno. Come nei regimi totalitari.

È la Rete.

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