Heaney, il nobile poeta contadino

Umile e coltissimo, rurale e classico, nei suoi versi ha espresso la profondità etica della vita quotidiana

Heaney, il nobile poeta contadino

È morto ieri in un ospedale di Dublino il poeta Seamus Heaney. Premio Nobel per la Letteratura nel 1995, Heaney era nato il 13 aprile 1939 a Castledawson (Irlanda del Nord). L'autore di North, considerato il suo capolavoro, aveva pubblicato la prima raccolta poetica, Morte di un naturalista, nel '66. Fra gli altri suoi titoli: Electric light, District and Circle e Catena umana. Sposato e padre di tre figli, il poeta ha insegnato all'Università di Harvard ed è considerato il rappresentante del rinascimento poetico irlandese. Mondadori sta lavorando a un «Meridiano» dedicato alla sua opera completa.

La scomparsa di Sea­mu­s Heaney è un gran­de lutto per la poesia, e per tutti quelli che cre­dono ancora che la poesia, solo lei, dia un senso al mondo. Era un uomo gentile, trasognato, ap­passionato, e un poeta coltissi­mo ma capace di umiltà, di attac­camento alle piccole cose della vita. Era irlandese, con tutto quello che di festoso, favoloso, ri­belle, contraddittorio l’essere i­r­landesi comporta. Nato in una fattoria a trenta chilometri da Belfast, da una fa­miglia cattolica, si era poi trasfe­rito a Dublino, e passava una par­te dell’anno sull’altra sponda dell’Atlantico, insegnando ad Harvard. Il Nobel, con la notorie­tà internazionale che conferi­sce, non lo aveva cambiato. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo sin dall’88, quan­do, durante un Festival in Sve­zia, ebbi modo di applaudirlo per la sostanza duramente, soli­damente etica dei contenu­ti della sua poe­sia. Rubi­condo, ro­busto, gli abiti in di­sordine, una zazzera indo­mabile di ca­pelli bianchi, mi prese sotto braccio mentre un baldo poeta americano passava davanti a entrambi per entrare in una sala e mi mormorò con una divertita, ironica compli­cità che noi, un irlandese, un ita­liano, rappresentavamo popoli minori, che devono lasciare la precedenza ad altri. In realtà, quello che la storia confina ai margini, la poesia può restituire al centro delle cose. Heaney di­ventò in breve il maggior poeta in lingua inglese del mondo. E l’Italia gli era presente grazie alla grandezza dei suoi poeti, e in par­ticolare a quella universale di Dante, che lui cita spesso e tradu­ce con grande energia.

Rurale e classico, Heaney ha saputo fondere il sostrato irlan­dese della campagna in cui è na­to, una campagna povera mate­rialmente ma ricca di leggende e miti, con la sua cultura di lettera­to che conosce il latino, il gaeli­co, l’antico anglo-sassone di Be­owulf , che può confrontarsi con il libro VI dell’ Eneide di Virgilio o con la poesia di Orazio, arrivan­do a sintesi efficaci e illuminanti. È celebre la sua definizione dello scrivere come «scavare», lavorare con la vanga, zolla dopo zol­la. Scavare si­no ad arrivare al nocciolo del sen­so, alla verità na­sc­osta che ogni lin­guaggio contiene, e che la poesia rivela. Nei suoi libri maggio­ri, da Morte di un natu­ralista a North , da Sta­tion Island a Veder cose , Heaney ha continuato a mostrarci i suoi paesaggi naturali e umani, la sua campa­gna irlande­se dove amava girare in auto, componendo versi e guidando, come mi raccontò una volta, e batten­do il te­mpo della me­trica con le dita sul vo­lante. Ne vengono fuo­ri straordinarie epifa­nie come questa: «Viag­giando all’alba verso sud, velo­ci/ in un paesaggio d’altopiano e muri/ di pietra, con le rocce an­cora fredde,// qua e là resti di pioggia luccicanti/ dietro una curva mi trovai di fronte,/ in mez­zo alla strada, immobile, la vol­pe », e ricordi familiari e sociali nei loro più vivi dettagli.

Nato in un Paese insanguina­to dalla guerra civile tra prote­stanti e cattolici, tra lealisti fedeli alla Corona britannica e militan­ti­dell’Ira, Heaney non ha mai fat­to scelte strettamente politiche. La sua poesia è rimasta fedele al­la vita quotidiana, alla profondi­tà etica, alla bellezza musicale dei versi. In questo momento di tristezza, mi si affacciano alla mente tante memorie di lui, la ce­na al premio Flaiano, tre mesi prima del Nobel, la sua semplici­tà nel confessarmi che i 10 milio­ni di lire gli servivano per rifare gli scaffali della sua libreria, nel rimettersi con difficoltà a posto la camicia debordata fuori dei pantaloni e nello sguardo rasse­gnato ai suoi sandali francesca­ni quando dovette andare a salu­tare l’ambasciatore d’Ir­landa. Come sarà stato complicato per lui indos­sare il tight a Stoccol­ma! E lo ricordo in una lunghissima chiac­chierata in un alber­go milanese di pri­ma mattina, quan­do mi venne in­contro smagri­to, il volto leg­germente sof­ferente, ma squisita­ mente genti­le nel rispondere a mille domande, anche alle meno gradite, come quel­le su Bobby Sands. O a una cena a Lerici, in un ristorante dove gli ven­ne servito un piatto di pasta ai frutti di mare che gradì tanto, o a Cetona, durante la cerimonia del pre­mio Cetonaver­de, quando dia­logando in piazza sul pal­co di fronte a una platea dove spiccavano banchieri e politici, riuscim­mo a far venir fuori il messaggio etico della poesia, che, sottoline­ai io, gli stessi politici e banchieri farebbero bene ad ascoltare.

Ora Seamus è già lassù e ascol­ta la musica del cielo. Certo non lontana dalla canzone in gaelico che sua moglie Marie Devlin can­tò quella sera in Svezia, venticin­que anni fa.

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