Thomas Bernhard è uno di quei grandi scrittori che se lo date a un critico ve lo rovina con un suo testo introduttivo da piccolo letterato. Magari per etichettarlo con la parola «nichilista», passe-partout metafisico tanto in voga non solo tra i preti ma tra tutti i letterati italiani di professione. Come hanno fatto con Leopardi, Beckett, Schopenhauer e tanti altri. Mi sono sempre chiesto se la usano con i medici: «Un tumore, dottore? Lei è un nichilista!».
È per questo che non bisogna mai finire di ringraziare Adelphi per aver abolito le introduzioni e le postfazioni e i tromboni che vogliono mettere il loro timbro schifoso sui giganti per cercare di portarli alla loro altezza lillipuziana. E Bernhard è un grande proprio perché è non ha bisogno di filtri, basta leggerlo. Vale per ogni suo libro, da Antichi maestri al Nipote di Wittgenstein al capolavoro puzzle della sua Autobiografia (intero ciclo di romanzi pubblicato da Adelphi in un bellissimo volume della collana La Nave Argo) fino a Goethe muore, una raccolta di quattro racconti usciti tra il 1982 e il 1984, quella che si dice "una chicca".
Qui ci sono tutti i temi assoluti bernhardiani, al centro il disgusto per la famiglia come associazione criminale destinata alla procreazione, all'oppressione, alla ripetizione presuntuosa dell'uguale. «Perché ogni nuovo mattino ci ricorda immancabilmente che è solo in una terribile sopravvalutazione di se stessi e nella loro effettiva megalomania procreativa che i nostri genitori ci hanno concepiti e figliati, gettandoci in questo mondo più orribile e disgustoso e esiziale che utile e piacevole». Andrebbe bene come antidoto per contrastare molti manifesti elettorali da Mulino Bianco democristiano che vediamo nelle strade in questi giorni.
Invece in Bernhard la famiglia è una trappola terribile di divieti, dove «prima sentenziavano: quest'acqua non la devi bere perché è avvelenata, poi sentenziavano: questo libro non lo devi leggere perché è avvelenato». Di conseguenza l'educazione è un'altra prigione da cui evadere (ma dalla quale è impossibile fuggire veramente, se non a caro prezzo), in quanto la stessa cultura tramandata è mortifera. «Su Goya dici le stesse cose che i tuoi genitori dicevano di continuo su Goya, leggi Goethe alla stessa maniera dei tuoi genitori e ascolti Mozart come loro, nel modo più banale». Certo, oggi questo problema in Italia non si porrebbe, visto che nessuno cita Goya né Mozart né Goethe, al massimo l'ultimo romanzo di Gramellini, e i genitori sono più analfabeti dei figli a cui non rimproverano neppure più di non leggere, ma a maggior ragione ha ancora più ragione Bernhard.
In ogni caso la soluzione è la cultura affrontata individualmente, come ribellione al conformismo della società, della scuola e della famiglia educatrice: «Io mi sono reso indipendente, perché ho afferrato l'occasione al momento decisivo, e mi sono liberato e ascolto Mozart così come lo ascolto io, contro i miei genitori, dunque contro i miei annientatori, guardo Goya come lo guardo io, contro i miei genitori annientatori, leggo Goethe, se mai lo leggo, così come lo leggo io».
E a proposito di Goethe è geniale proprio il racconto che dà il titolo alla raccolta, la storia della morte di Goethe, il simbolo della cultura nazionale tedesca. Perché avere una cultura, insegna Bernhard, significa appunto essere coscientemente contro le mistificazioni culturali. Non per altro Bernhard è stato un grande nemico dei critici e dei premi letterari, riceverne uno significava "farsi cagare in testa", e considerate che il Grillparzer era molto meglio del Premio Strega.
Nel racconto la coerenza temporale della narrazione è scardinata e resa coerente con la compresenza mentale della letteratura. Così Goethe sta morendo e vuole ai suoi funerali Ludwig Wittgenstein perché, dopo aver letto il Tractatus, si è accorto che è molto più importante di lui e di qualsiasi cosa abbia scritto in passato: "Non v'è altro uomo che ne sia degno. Voglio avere Wittgenstein accanto a me!".
Avrebbe voluto anche Schopenhauer, ma Schopenhauer purtroppo era morto. I tre assistenti, Riemer, Kräuter e il narratore stesso, presenti al capezzale, e benché contrari all'incontro, si danno da fare per andare a cercare Wittgenstein a Cambridge, ma scoprono che perfino Wittgenstein è morto da tempo, e tra l'altro nessuno, nella cerchia di Wittgenstein, ha mai sentito nominare Goethe. A Goethe, tuttavia, riferiscono il contrario, e alla sua morte falsificano le ultime parole, come quelli che ti convertono tuo malgrado in punto di morte.
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