Cultura e Spettacoli

L'umile impiegato che sbrigò la pratica di Modigliani & Co.

Come tutti i grandi collezionisti era modesto, riservato, timido; tutti lo volevano consigliare e lui ascoltava, comprava e rivendeva, scambiava. Peccato non avesse dato ragione unicamente al proprio istinto: acquisire soltanto quadri di Modigliani e di Utrillo. I due erano notissimi, per l'eccentricità delle loro vite e della loro pittura rispetto ai climi dominanti i primissimi decenni del secolo: non avanguardie, non cubismo, non deformazioni, alterazioni, futurismo. Uno, solitariamente caparbio, riportava in Francia una sorta di ritorno all'ordine che aveva una ragione profondamente e malinconicamente italiana; l'altro coniugava un paesaggismo erede di culture tradizionali e le frange puntiniste degli impressionisti che ancora dominavano il gusto con la modernità scabra che sarebbe stata del nostro De Pisis, naturalisti senza tempo che sanno cosa chiedere alla natura perché la natura risponde loro.
Ebreo di origine alsaziana, Jonas Netter scomparve dietro la sua collezione che pare alla sua morte (1946) contasse duecento pezzi: da uno dei pochi ritratti rimasti, opera di Moïse Kisling, un altro dei suoi protegés, resta un volto semplice, quasi rassegnato, paludato in un abito impiegatizio, lo sguardo perso... Faceva il rappresentante, dicevano fosse avaro: lui, semplicemente dichiarò di sé: «se avessi seguito la mia ispirazione avrei acquistato tutti gli Utrillo e tutti i Modigliani che mi capitavano sotto gli occhi. Ma mi si prendeva in giro».
L'incontro con Modigliani avvenne attraverso la mediazione di un altro personaggio d'eccezione, altro ebreo, poeta polacco e mercante di libri, stampe e manoscritti: Leopold Zborowski, che conobbe il livornese esattamente nell'anno in cui questi si era convinto di dedicarsi definitivamente alla pittura, il 1916. Fu Zborowski, immortalato in sei ritratti, amico e appoggio, l'uomo destinato a diventare il punto di riferimento degli anni estremi della sua vita, ancora soltanto quattro.
La mostra «Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter» (Milano Palazzo Reale, fino all'8 settembre, a cura di M. Restellini, catalogo 24Ore Cultura) presenta alcuni dipinti di Modigliani che non si vedono da molti anni. Spiccano i due ritratti di Jeanne Hébuterne, altro incontro decisivo per la vita del pittore e futura madre della figlia Jeanne, quello di Soutine, oltre al miracolo della Bambina in azzurro, datato 1918, che già racconta la strada delle fine, la rarefazione, la solitudine, la semplicità assoluta, l'assenza. Anche Modigliani, pur nel suo brevissimo percorso, ha un «ultimo stile», distinto e riconoscibile dai precedenti. Che è quello dei ragazzi, delle servette, dei bambini, appena reclinate le teste, nel gesto ancora gotico delle madonne di Simone Martini, fra timidezza e leziosità, fra un refolo di eleganza preraffaellita e fedeltà alla somiglianza. Con l'arte di «levare», come diceva Michelangelo, più che si può, lasciando soltanto l'essenziale, l'ombra, l'anima.
Penso sia arduo affermare, come sostiene il curatore della rassegna milanese, che «senza Jonas Netter non ci sarebbero stati Modigliani né Soutine né Utrillo». Modigliani, sempre sostenuto economicamente dalla famiglia italiana e in particolare dal fratello Emanuele, fervente politico socialista, era già stato adottato da Paul Guillaume, mercante d'arte africana e scrittore, «unico acquirente dei quadri di Modigliani», come si definì lui stesso, fino al 1917.
«Lavoro e se mi tormento a volte non sono più così imbarazzato come prima», avrebbe confessato a sua madre Amedeo in una lettera del 1916. Così Utrillo, nel caotico disordine che condivideva con l'impareggiabile madre Suzanne Valadon, tra amori e matrimoni, bevute leggendarie e disintossicazioni, stava conquistando una propria strada, di acquisti pubblici e di mercanti privati. Suzanne Valadon, con Soutine e Kisling, gli altri pittori che Netter decise di aggiungere alla sua predilezione per Modigliani e Utrillo, compare con una serie di dipinti assoluti e decisivi, trapasso di biografia e arte, tra i segni alla Toulouse-Lautrec e la femminilità dirompente che trasformò il sodalizio di madre e di figlio in uno dei veri capolavori della storia dell'arte del Novecento. Kisling ondeggia fra memorie cubiste e colori matissiani; Soutine, altro ebreo di Cracovia, è violento, scontroso, irascibile.
Fra nature morte che succhiano colori dall'appena passato espressionismo tedesco e dal suo personale istinto, l'avanguardia costeggia, nella ricostruita collezione Netter di nuovo radunata dopo oltre settant'anni, gli inarrivabili solitari. Che sarebbero arrivati ovunque, anche senza mercanti, senza leggende, senza femmine pazze e senza soldi.

Come Brancusi, che arrivò a Parigi a piedi dalla Romania, e si pagava il viaggio intagliando madonne per le badesse dei conventi che lo ospitavano.

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