Cultura e Spettacoli

Il metafisico della gioventù brucia i vecchietti retorici

Convegni, mostre, recite e concerti rilanciano la figura di un intellettuale nemico delle ideologie e delle utopie. Allievo del maestro Leopardi che superò in pessimismo

Il metafisico della gioventù brucia i vecchietti retorici

Tra gli autoritratti di Carlo Michelstaedter esposti a Rho e Senago nella mostra in corso dedicata a lui, colpisce la sua immagine da vecchio. Un ragazzo si ritrae da vecchio; poi si suicida, lasciando, come un Dorian Gray capovolto, l'immagine del volto che avrebbe potuto essere se si fosse addentrato nella vecchiaia. Si concluderà domenica prossima la rassegna dedicata a Michelstaedter, tra convegni, mostre, recitazioni e concerti, curata da Erasmo Silvio Storace.
Nel breve corso della sua vita, ventitré anni, metà vissuti nell'Ottocento e metà nel Novecento, Michelstaedter fu filosofo e poeta. La sua opera più significativa è La persuasione e la rettorica, poi scritti sparsi, dialoghi, poesie e un denso epistolario. Individualismo assoluto potrebbe dirsi il suo pensiero sulle tracce di Nietzsche, e così Julius Evola definì nel suo solco la sua stessa filosofia. Ma l'individuo di Michelstaedter fu assoluto perché dolorosamente sciolto da tutti i legami, ab-solutus: «Tutti i legami sembrano sciogliersi». Forte fu in lui il senso del divino, della patria e della famiglia, ma di ogni principio, così come di ogni affetto, di ogni amore, di ogni istante, di ogni cosa al mondo, vide l'inevitabile dissoluzione, la fine e poi il deserto. «Chi vede Iddio muore»: la verità divina coincide con la morte, come poi scriverà Simone Weil. La patria che accendeva gli animi dei ragazzi del suo tempo e che li porterà all'interventismo, per Michelstaedter non era un'eredità da custodire ma un fuoco interiore che ciascuno a suo rischio deve creare. E la famiglia, così presente nella sua vita e nei suoi scritti, viene avvertita nel suo sfaldarsi. «Non c'è pane, non c'è acqua, non c'è letto, non c'è famiglia, non c'è patria, non c'è Dio. Egli è solo nel deserto e deve creare tutto da sé, Dio, patria, famiglia e l'acqua e il pane». Viva la vita, scrive Carlo, ma la morte è invincibile. Vano è pure pretendere di tornare, ogni ritorno per lui è una doppia morte, non una rinascita. E non c'è progresso della civiltà che non sia regresso per l'individuo, ogni conquista della tecnica atrofizza una parte del corpo o della mente.
A leggerlo avverti il suo distacco dal suo tempo, «io son solo, lontano, io son diverso, per altri cieli è la mia vita». Ma poi ti accorgi che la sua solitudine rispecchia il suo tempo, gli umori crepuscolari dell'Impero Austrungarico, ma anche la fiamma della gioventù, l'intransigenza dei vent'anni e la sete d'assoluto, espressa ad esempio dalle riviste fiorentine (Papini recensì il suo «suicidio metafisico»). La sua opera si inscrive in quella «metafisica della gioventù» che sconvolse anche la compassata Mitteleuropa e si protrasse fino a Walter Benjamin. «Giovane è tutto ciò che diviene, morto è ciò che è già divenuto». Ritrovi in Michelstaedter la parola chiave del suo tempo, il fuoco, e poi il fiammeggiare, l'incendio, come scrivevano d'Annunzio e Carducci, Marinetti, Campana e Palazzeschi, Papini, Mussolini e Gentile. Tutto il suo pensiero è un'ardente combustione del mondo e della vita. Ma i suoi coetanei incendiari rivolsero la loro ansia di assoluto nella storia, nella guerra, nei sogni collettivi, nell'interventismo e nelle rivoluzioni. Michelstaedter rivolse il fuoco verso l'interiorità, contro se stesso. Egli considerava quel mondo esteriore come retorico, mentre cercava la via della persuasione, il confronto autentico con la verità e non con la storia e gli assoluti terrestri, le ideologie e le utopie.
Retorica era per lui quella di d'Annunzio e di Carducci, retorica era la passione storica, retorica era la filosofia idealistica e accademica. Gentile alla sua morte lo considerò un frutto acerbo della filosofia, una promessa mancata e un pensiero immaturo perché non aveva portato a sistema le sue intuizioni filosofiche. Ma Michelstaedter non voleva costruire castelli di teoria, espresse un attualismo tragico, però l'Atto Puro in lui coincise col togliersi la vita. Michelstaedter scelse la via leopardiana. De Sanctis e Gentile avevano trasfigurato il pessimismo leopardiano in una visione d'amore della vita. Invece lui percorse la via leopardiana fino in fondo, oltre Leopardi stesso, varcando il suo pessimismo che si abbandonava al naufragio, spingendosi fino al suicidio. Un atto tragico, desunto dalla sua filosofia anche se non fu estranea una certa familiarità col suicidio, considerando altri casi in famiglia, prima e dopo di lui.
Si uccise nell'anno della cometa di Halley (1910), che si diceva predisponesse gli animi stellari al suicidio. Alla cometa dedicò un dialogo, ma sulla cometa scrissero pure Svevo, Canetti e Jünger, che la rivide 75 anni dopo (Due volte la cometa). Sulle sue poesie, di chiara impronta leopardiana, anche se non mancavano influssi petrarcheschi e dannunziani, i giudizi sono controversi. Pochi mesi dopo la sua morte, l'editore Formiggini stroncava i versi di Michelstaedter, arrivando a dire che «senza quella tragica conclusione non avrebbe suscitato l'interesse dei lettori» (alcuni anni dopo anche Formiggini si suicidò). Certo, il paragone con Leopardi era insostenibile; ma la poesia di Michelstaedter ha una sua grandezza. Poesia pensante, da non confondere con i poeti crepuscolari a lui coevi, come Sergio Corazzini, morto anche lui ventenne, ma di tisi. Si avvertiva anche nei versi «la melodia del giovane divino».
Scoprii Michelstaedter leggendo Evola; lo lessi in parallelo a Otto Weininger, considerato come un suo gemello separato: stessi studi in matematica, stesso pensiero tragico, stessa origine ebraica e mitteleuropea nel cuore della Finis Austriae, stessa passione per Beethoven e per la musica, stesso suicidio in ottobre, alla stessa età. Ma Weininger era misogino, odiava il ballo e viveva appartato; Michelstaedter invece amava le donne e la vita, provava «piacere fisico, voluttà insuperabile» a perdersi nel ballo, amava il sole, il mare, la vela. Lo lessi da coetaneo, al mare, lo stesso Mare Adriatico, con pathos, attraversai giorni di fraternità con lui; più tardi visitai i suoi luoghi, Gorizia, Pirano, l'Istria. E ancora non riesco a visitare quei luoghi se non attraverso la tristezza del suo sguardo, e la memoria dei suoi scritti, dei suoi schizzi, delle sue rare foto sul mare. Anche il sole, anche il mare, la luce e i paesaggi dell'Istria e di Gorizia, mi paiono come soffusi da una vena indicibile di tristezza; anche a mezzogiorno senti il fiato sul collo del tramonto. «Senti Jolanda come è triste il sole».
La tragedia del suo pensiero e della sua vita fu di pensare l'assoluto senza uscire dall'io.

Il mare non entra in un bicchiere, deborda e lo travolge.

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