In principio era la tavola... ma male apparecchiata

«Siamo ciò che mangiamo», il noto aforisma di Ludwig Feuerbach, potrebbe essere la sintesi del pensiero di Adam Gopnik, giornalista del New Yorker, autore del recente In principio era la tavola (Guanda, pagg. 352, 22 euro). Appassionato di cucina, di ristoranti e di vini, lo scrittore americano nel suo libro si compiace, peraltro in modo piuttosto confuso, di divagare fra storia della gastronomia e filosofia della tavola, racconti di ricette e ricordi personali. La tesi di fondo di Gopnik è che l'interesse ossessivo con cui oggi, più che in passato, si parla di cibo sia dovuto al fatto, sul piano dell'individualità e dell'identità, racconta di noi e che «alimenta», in modo inestricabile, i «nostri concetti di clan e nazione».
Riflessione corretta, in linea generale. Ma, da buon americano ricco della costa orientale, Gopnik falsa la premessa di partenza. Nel passato si parlava di cibo molto più di ora. Nell'imperante miseria la vita trascorreva arrabattandosi a mettere insieme il pranzo con la cena: tutto ruotava attorno alla tavola, che non era un piacere ma la sussistenza stessa. Come, in ultima analisi, continua a essere: mangiare più che «atto di intelligenza» (come sostiene Gopnik) rimane necessità. Ora, tanti altri «argomenti» oltre il cibo popolano il nostro mondo, e pure la nostra conversazione: la politica, lo sport, i viaggi, la moda... e ognuno di essi narra, innegabilmente, di noi. Certo, la tavola (oltre al sesso) rimane il piacere più fisico, e più intimo, ma non l'unico. Perdendo la sua centralità nella vita dell'individuo, il cibo ha però acquistato in libertà: divenendo, più che un mero racconto di noi, espressione di noi.
Le pagine di In principio era la tavola scivolano via, con tono un po' snobista, alternando riflessioni intelligenti (come quelle sul consumo di carne e pesce) ad altre banali (come quelle sulla provenienza dei cibi e la filosofia del kilometro zero) e a veri e propri svarioni (come le affermazioni circa l'inesistenza di ricettari prima della metà dell'Ottocento e sulla nascita dei ristoranti alla fine del XVIII secolo).

Fra ricordi di Francia e tanti nomi americani che a noi europei dicono poco o nulla (tranne quello di Thomas Keller, il più europeo, e il più bravo, fra gli chef statunitensi) dov'è l'Italia, il Paese del buon mangiare? Gopnik nemmeno la nomina, chiudendo le sue oltre trecento pagine con la narrazione di un pasto al desco del solito Ferran Adrià, il funambolico cuoco spagnolo divenuto celebre per le sue spume e creme. Peccato.

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