Un conoscente, valido studioso, mi confidava, ridendo, come per tutta la vita lui (cattolico) e un suo collega accademico (laicissimo, anche lui valido studioso) si siano fatti la guerra per poi ritrovarsi felici e contenti sotto la bandiera di Matteo Renzi. E che strette di mano. E che armonia. La sua conclusione era che ogni società dispone i suoi «contenitori culturali» (parole sue), e che le amicizie e le inimicizie dipendono non da quello che pensiamo realmente, ma solo dai contenitori nei quali ci troviamo, spesso quasi senza accorgercene, e che definiscono i nostri ruoli (anche, per esempio, nei talk-show).
Non so se questo sia del tutto vero. Penso tuttavia che, a livello globale, il primo grande contenitore, tenace e tirannico come pochi, nel quale veniamo a trovarci, sia la lingua che usiamo. Mi trovavo alcuni giorni fa a un convegno sulla «Social innovation nei processi educativi». L'intervento introduttivo, che apriva il dibattito era stato affidato a un noto sociologo inglese. Ora, io soffro di un disturbo per cui non appena sento parlare un sociologo, un urbanista e in genere un ingegnere sociale (compresi molti politici) di colpo non capisco più niente. Lo stesso mi capita quando leggo, per esempio, certi articoli di legge. In quei casi, la mia illusione di essere una persona di media intelligenza naufraga miseramente. E poiché di solito vedo che quelli intorno a me capiscono tutto, ne deduco di essere un perfetto deficiente.
Eppure capisco Dante, Leopardi, Manzoni. Posso essere o meno d'accordo con loro, posso naturalmente fraintendere qualcosa, ma in genere mi pare che dicano tutte cose ragionevoli. Per tornare al convegno, potete immaginare la mia sorpresa quando ho scoperto di capire perfettamente tutto quello che il sociologo inglese diceva. Le espressioni teoriche erano ridotte a quelle necessarie, tutte accompagnate da molti esempi sempre chiari. E mi venivano in mente altri autori, tutti di area anglosassone, che riescono ad affrontare problemi con sorprendente chiarezza.
Certo, so per esperienza che spesso gli autori di lingua inglese tendono a semplificare questioni che semplici non sono, nella convinzione che eliminare le sfumature sia un esercizio doloroso ma non poi così dannoso. È difficile che un anglosassone, specie se di sesso maschile, ammetta che nelle sfumature si nascondono spesso le verità più importanti. So anche, però, che lo sforzo generale di chi usa quella lingua è di essere chiaro e comprensibile a tutti, e vi posso garantire che molte di queste persone non evitano affatto la complessità dei problemi. Se confronto le loro parole con tutti i gerghi (politichese, giuridichese, sindacalese, sociologhese, architettese eccetera) in uso da noi, mi viene da pensare che il motivo per cui la cultura anglosassone domina il mondo, il motivo per cui il numero di cinesi che studiano inglese è di gran lunga superiore al numero di abitanti del Regno Unito, sta anche in questa attitudine della lingua inglese alla chiarezza.
Un'attitudine che non dipende solo dalla struttura della lingua ( situational , dicevano i vecchi insegnanti, cioè capace di adattarsi alla realtà concreta) ma da un'idea democratica della conoscenza da noi quasi completamente ignota. Da noi la lingua è ancora perlopiù uno strumento di potere. Politici, sindacalisti, sociologi ecc. parlano per non essere capiti, sono gli iniziati di un sapere esoterico che garantisce a chi lo possiede un potere, e come si sa il potere tende a conservarsi. Così la verità di quello che si dice, la sua possibile verifica nel concreto dell'esperienza cedono il passo al prestigio inalienabile del Soggetto Parlante, all'esibizione di un'intelligenza che appare tanto più grande quanto più incomprensibile (In margine: è interessante il fatto che Dante - che aveva già capito tutto questo - continui a essere il nostro autore più amato, ma che il nostro canone letterario sia petrarchesco).
E ora che l'Italia è sulla soglia di un cambiamento epocale (o di un definitivo sprofondamento nella propria vecchiezza), ci accorgiamo che la stessa battaglia deve avvenire, parallelamente nel modo di usare e concepire la nostra lingua.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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