Se la morte è l'ultimo grande show

Nel nuovo libro di Alicia Giménez-Bartlett una clinica "terminale" si trasforma in metafora della vita

Sebbene il suicidio assistito, o meglio l'eutanasia, sia un tabù tra i tanti del nostro paese in controriforma continua, Exit (pagg. 305, euro 16), il romanzo di Alicia Giménez-Bartlett edito da Sellerio, ha scalato anche le classifiche di vendita italiane. Sarà che la scrittrice spagnola ha avuto successo con i polizieschi di Petra Delicado, e sarà che Exit è l'emblematico nome di una villa del suicidio immersa nella natura dove si ritrova una sgangherata combriccola di aspiranti suicidi e il risultato è più divertente che tragico, romanzo sulla morte ma da ridere e perfino simbolicamente premonitore.
A cominciare dal fatto che “la casa” dove finiscono i nostri eroi se fosse un film ricorderebbe il parodistico Invito a cena con delitto o il surreale L'angelo sterminatore di Buñuel o il granguignolesco Kill me please. In Svizzera la clinica Exit esiste davvero, e da anni se ne fa un gran discutere ma a pensarci meglio anticipa semplicemente l'avvento dei reality, un Grande Fratello in versione terminale. Tra l'altro per coincidenza il romanzo è uscito in Spagna nel 1984, l'anno del romanzo di Orwell che però non aveva capito granché sul futuro, non quanto ha intuito invece la Giménez-Bartlett nel 1984 del nostro presente: nessun potere che ci guarda, al contrario siamo noi a spiare e a voler essere spiati, a maggior ragione se in punto di morte.
Nella casa ci sono un finanziere, una vedova, la coppia lesbo Clarissa e Pamela, un ferroviere, un poeta, un'infermiera con lo sguardo da merluzzo, e i due medici proprietari: il dottor Berset e il dottor Eugenius. Come nel Grande Fratello c'è un regolamento: il cliente è libero di scegliere come uccidersi, può ripensarci fino all'ultimo, non è tenuto a fornire agli altri spiegazioni, e in ogni caso prima del passo e finale si sta insieme, ci si conosce, si origlia, si spettegola, ci si innamora e si fa sesso, volendo, per il tempo in cui si rimarrà nella casa. La prospettiva della morte rende tutto più intenso e porta ciascuno a rivelare la propria natura tra «tresche, vendette, infantilismo a oltranza, ipocrisie e mistificazioni».
Nulla viene trasmesso in televisione ma come nel Grande Fratello di tanto in tanto arrivano nuovi ospiti, per movimentare la situazione. Con un incipit fin troppo tranquillo, dove «l'aria odorava di fiori con un'intensità quasi intollerabile» e uno svolgimento sempre più esilarante mentre la follia contamina gli ospiti come un virus, soprattutto l'idea di morire secondo un copione, una messa in scena. Chi vuole farla finita come Giulio Cesare, chi come Madame Bovary, chi come un antico faraone, con tanto di piramide costruita in fretta e furia da un'impresa di muratori improvvisati nel giardino della villa, in quanto l'organizzazione di Berset e Eugenius provvede sempre a allestire lo scenario desiderato alla meno peggio, coinvolgendo gli altri clienti come in una recita scolastica («quello che andava ricreato era l'esprit della scena»). Se la piramide viene su «strabica» non importa, il suicida murato vivo non se ne è accorto e l'indomani sarà smantellata. Come nei reality stando nella casa ci si sente più veri, come pensa il poeta Léonard «in fondo non c'è nessuna differenza tra recitare una commedia e crederci. È quel che facevo io prima di entrare a Exit. Soltanto ora ho cominciato a vivere la realtà».
A Exit «si può vivere nella pura teoria, lo spazio non esiste, il tempo non esiste, i fatti non esistono: la realtà è quella che ci inventiamo noi giorno dopo giorno». Exit «è il punto d'arrivo liberamente scelto di tutte le ignominie», dove ognuno ha la sua visione del vivere e del morire, ognuno una sua stanchezza. Tanto «le cose, per succedere, non hanno bisogno di noi».
Così il ricco ingegnere Finn è pragmatico e sereno, pensa solo che «respiriamo finché non smetteremo di respirare, non c'è nessun angoscia, nessun dolore». Ciascuno ha la sua noia specifica, per la vedova Madame Tevener «la vita è un concetto astratto, quello che si vive giorno per giorno non c'entra niente. Sono stanca di andarmene per il mondo, di visitare musei e monumenti, di appartenere a circoli e associazioni, di partecipare al grande spettacolo della frivolezza felice». Neppure il barbone Pasteur si uccide per disperazione economica («io sono un barbone, sono povero da sempre, ho una tradizione alle spalle, uno status») piuttosto per sfruttare il soggiorno omaggio. Il dottor Eugenius ce l'ha con gli istinti di ribellione degli ospiti della casa, e fornisce una delle chiavi antropologiche del romanzo, perché «si dimostrano due cose terribili: uno, che l'immaginazione, in qualsiasi organizzazione la si introduca, manda all'aria l'ordine costituito. Due, che gli uomini non sanno accettare la libertà e devono sempre vivere contro qualcosa».


E perfino il dottore finirà per impazzire vittima del contagio, ma forse alla fine anche voi vi ritroverete a pensare a come vorreste morire potendo scegliere, io per esempio chiederei di poter morire come vorrei vivere, tra le tette di Nicole Minetti, perché tanto, come scrive la Giménez-Bartlett, «l'amore sarà un sentimento a due, ma per il desiderio ne basta uno solo».

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