Un secolo e mezzo in viaggio con bagagli troppo «leggeri»

Scrittori italiani di viaggio 1861-2000 (Mondadori, pagg. 1811, euro 65) dovrebbe dar conto, in modo mirato, di quella che nella lunga introduzione al volume del suo curatore, Luca Clerici, accademicamente viene definita «odeporica» e/o «periegetica». E già da questo si capisce come, rispetto al Travel writing anglosassone si parta svantaggiati. Nelle antologie, si sa, ogni inclusione è portatrice di esclusioni, e però si resta perplessi a vedere come il Novecento campionato non rechi traccia di Giuseppe Tucci, Fosco Maraini, Folco Quilici, per fare solo tre nomi... Venendo ai tempi più vicini al nostro, mancano Tiziano Terzani, Saverio Vertone, Stefano Malatesta, limitandoci anche qui a tre nomi, e l'idea che siano più rappresentativi il duo Syusy Blady-Patrizio Roversi, oppure Beppe Severgnini e Sandro Veronesi lascia perplessi. Scrive Clerici che «Scrittori italiani di viaggio ambisce a rappresentare un atlante storico e tipologico delle modalità espressive e caratteristiche della travel literature» e si propone di «valorizzare nuove opere piuttosto che limitarsi a replicare il canone» e sarà certamente così. Ciò che però ne vien fuori è un atlante incompleto.
Dei settantadue scrittori-viaggiatori presi a campione, ventidue raccontano la seconda metà dell'Ottocento e i restanti il secolo novecentesco. Una sezione, la più ampia, chiamata «Italia», introduce alle altre quattro strutturate a mo' di rosa dei venti: Nord, Sud, Est, Ovest, una «bibliografia ragionata», ma non ordinata alfabeticamente e quindi di difficile consultazione, e un indice dei toponimi chiudono il volume che è, ricordiamo, il secondo di un'opera complessiva (il primo abbracciava un arco di tempo dal 1700 all'Unità d'Italia e presentava 58 autori).
Fra i criteri adottati da Clerici, il più penalizzante, anche se il più comprensibile, è quello di accogliere «soltanto testi editi in volume», eccezion fatta per un inedito di Gina Lagorio. Proprio perché la letteratura di viaggio, in specie dagli anni Trenta, deve moltissimo alla carta stampata, quotidiana e periodica, si capisce quanto materiale non sia stato preso in considerazione: «Un corpus non ancora dominabile» scrive il curatore. Questo spiega l'assenza, per fare appena due esempi, di un inviato d'eccezione come lo scomparso Sandro Viola per Repubblica, oppure Alberto Pasolini Zanelli al Giornale.
Fra le scelte, come dire, non conformiste di Clerici vale la pena di indicare quelle di un viaggiatore a torto ritenuto «sedentario» quale Mario Praz, i repechage doverosi di Vittorio G. Rossi e Mario Appelius, l'inserimento di Ettore Patti, l'eccezione, in un'antologia che non contempla la poesia, del marinettiano poema parolibero Spagna veloce e toro futurista. Fermandosi al Duemila, l'antologia lascia fuori scrittori-viaggiatori come Paol Rumiz, dilettanti d'eccezione come Anacleto Verrecchia, «venerati maestri» come Alberto Arbasino nella sua più tarda versione, editorialmente parlando, di scrittore-vagamondo (ma alcuni di questi suoi testi sono stati editi ancora negli anni Novanta), inviati speciali come Ettore Mo (ma anche per lui vale quanto detto per Arbasino), e ci fermiamo qui per non fare un elenco telefonico. La cronologia, si sa, ha le sue leggi, ma per gran parte dei nomi appena citati c'è il recupero, in forma di libro, di ciò che prima era stato scritto in forma di reportage, e forse l'eccezione avrebbe comunque potuto far parte della regola... Più in generale, si ha l'impressione che nelle scelte d'insieme, nonostante l'indubbia conoscenza e competenza di Clerici, sia stata un po' dimenticata un'editoria meno visibile, ma non per questo meno nobile. Penso al librario-editore torinese Fogola, a cui si deve lo strepitoso I luoghi e il tempo di Piero Buscaroli, oppure Bietti con l'altrettanto strepitoso Volapiè di Max David.
Il lettore potrebbe obiettare che quella che sto descrivendo è la mia antologia e non il libro in questione, e non avrebbe tutti i torti: vale la pena allora cercare di spiegarsi meglio. Letteratura di viaggio è un'espressione ambigua: scrivere di ciò che si è visto in giro ne fa parte, ma non è sufficiente. Come ogni genere ha le proprie regole non scritte che chi lo pratica seriamente ben conosce, a partire da quella fondamentale di voler andare oltre il genere stesso... Da Byron a Fermor, a Chatwin, a Thubron, per citare quattro inglesi campioni del mondo della specialità, nessuno di essi ha mai accettato l'idea di essere considerato un semplice travel writer: il viaggio, l'altrove, è il campo d'azione dove viene esercitata la scrittura, ma è quest'ultima il fine ultimo. Scrittura non vuol dire bella prosa, ma la messa su carta di un universo interiore cui concorrono stratificazioni di letture, incontri e conoscenze, freschezza d'occhio, curiosità, immersione nell'altro, sensibilità mitica. È tutto questo a far sì che, a distanza di tempo, si legga ancora, che so, Norman Douglas o Giacomo Casanova.
Citare quest'ultimo è emblematico, perché fra la fine del Settecento e tutto l'Ottocento, quando cioè il viaggiare comincia la sua lunga marcia dall'esplorazione-erudizione scientifica alla narrazione-racconto soggettivo, il nostro diveniva un Paese sempre più sedentario e letterario e «l'andare in giro a vedere» una pratica intellettualmente non nobile, di seconda mano, al massimo un esercizio stilistico. Ancora sino alla prima metà del Novecento da noi è stato così, e questo spiega perché fra le due guerre siano stati i giornalisti-scrittori e non gli scrittori-letterati a incarnarla al meglio, i Comisso, gli Emanuelli, i Malaparte eccetera.

È con la nuova Italia del secondo dopoguerra che, lentamente, le cose sono mutate e un genere poco frequentato e in fondo sottostimato ha cominciato con il mettere radici. Se oggi lo si vuole campionare, è probabile che la scelta giusta sia quella di Clerici e del suo «Meridiano» Mondadori, ma se lo si vuole far amare e riconoscergli dignità, non mi sembra questa la strada.

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