Quando qualcuno ti consiglia un film o un libro o una serie televisiva, due sono le cose: o ti conosce bene, e lo ringrazi perché ci becca, o ti consiglia cosa piace lui, e se sei gentile fai finta di niente perché per te è una schifezza. Quindi ringrazio Federica Manzon, narratrice, editor, peperina e merlettata come poche, per avermi caldeggiato Hallgrímur Helgason, di cui Mondadori ha appena pubblicato La nonna a 1000º, un romanzo di seicento pagine. «È il più grande scrittore islandese», ha detto Federica. «Mmm. E gli altri chi cavolo sono, scusa?». Non lo sapeva neppure lei, d'altra parte mica è islandese, la Manzon.
A me, per carità, l'Islanda non è mai stata antipatica come la Spagna o i Paesi sudamericani che piacciono tanto agli scrittori impegnati, neppure insopportabile come l'India, dove la romanzeria è sempre intrisa di quella cosa chiamata spiritualità. Ma neppure me ne è mai fregato granché, già fatico a interessarmi dell'Irlanda di Joyce e ai mitteleuropei che propina Magris. Invece Helgason sembra un americano. O un francese. Insomma uno scrittore vero. Non un italiano, per carità. Unico problema, i nomi sono impronunciabili, a cominciare dalla nonna protagonista, Herbjörg Marìa Biörnsson, e lei almeno potete chiamarla semplicemente Herra, gli altri ve li dimenticate appena letti. Tuttavia il personaggio di Herra basta e avanza: vi racconterà i suoi viaggi nel mondo, i suoi amori, la sua genealogia traboccante di aneddoti, con ormai tutta la vita alle spalle, malata di un cancro che però non riesce a ucciderla. Glielo diagnosticano nel 1991, pronosticandole meno di un anno di vita, e dopo diciotto anni è ancora arzilla, spiritosa, monologante. Nel frattempo il cancro lo ha perfino battezzato, lo chiama Cancro Biörnsson, come un figlio. Ha perfino un enfisema e fuma una sigaretta dopo l'altra. «Me ne sto qui a ingiallire con una parrucca grigia su un camice color sudario, come un ebreo dopo la camera a gas». Bloccata su un letto di un garage con un computer portatile e una bomba a mano di epoca hitleriana, sciorina un'autobiografia lunga un secolo.
Herra era una bella donna, ora una nonna, e non ha paura di dire le cose come stanno o vederle come non stanno, per questo è affascinante, e per questo non potrebbe essere il ministro della cultura mancato Baricco o il ministro della cultura in carica Franceschini, il quale, per la verità, appena nominato, ci ha fatto sembrare Baricco quasi Proust. Ci vorrebbe Herra come ministro, altroché. Così spietata con se stessa e la propria carne: «Dalla scollatura ampia e aperta sfugge una triste calzetta di pelle che pare un calamaro, quel che si chiamava seno». Spietata con le donne, specie con quelle che diventano madri: «Le donne sanno di morire nel momento in cui nasce la loro prole». Trasformandosi in esseri asfissianti, piagnucolosi, insopportabili, ecco perché «chi non ha ricordi della propria madre ha avuto una buona madre». Intollerante anche con i pacifisti, e ne sa qualcosa perché, tra i tanti mariti, uno lo sposa pure: «Il suo pacifismo si basava su un profondo conflitto interiore, che l'aveva spinto alla violenza verso le donne. Eccoli, in fin dei conti, i problemi degli idealisti, hanno sempre qualche pentola a bollire sul fornello di cucina».
Ce l'ha a morte con Simone de Beauvoir («o Simone de Bovary»), per il servilismo nei confronti di Sartre («il brutto nanetto filosofo francese») e il loro ménage falsamente libero, con minorenni portate a letto «dal nano e dalla signora». Tra i mille consigli, mette in guardia gli innamorati dagli «ingegneri affettivi»: «Sono i giovani che trattano il loro affetto come un omicidio e preferiscono lavorarselo in solitudine, lo pianificano e lo progettano in maniera sontuosa, come una futura opera dedicata a sé e alla persona amata. Si perdono in maniera totale nei loro preparativi e poi reagiscono in modo isterico quando il loro progetto non viene accettato». Un esempio di ingegnere affettivo: Adolf Hitler.
Herra è la nonna che tutti avremmo dovuto avere, almeno io. Una capace di dirti: «Ho sempre detestato frequentare gente che non ha mai dovuto scavalcare un cadavere». Se questo romanzo fosse un film sarebbe girato dai Monty Python, con la sceneggiatura del Samuel Beckett di Giorni felici. Se fosse di un altro scrittore non islandese sarebbe di un Charles Dickens pulp, con la consulenza di Chuck Palahniuk. I mille gradi del titolo, fra l'altro, sono la temperatura del forno per la cremazione. Presso il quale Herra prende un regolare appuntamento, come se andasse dal dentista, il 14 dicembre. Tanto anche la sua morte cosa sarà mai, su internet ha appreso che ogni giorno muore un numero di persone pari a metà della popolazione islandese, ossia cento persone al minuto, una persona virgola sei al secondo, «la velocità della storia dell'umanità».
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