Da anni, forse decenni, uno scrittore non si aggiudicava sia il Pulitzer per la narrativa sia il National Book Award, le due maggiori onorificenze letterarie degli Stati Uniti. L`afroamericano Colson Whitehead è riuscito nell`impresa, ed è stato anche premiato da critica e lettori, vendendo a oggi un milione di copie, con endorsement persino di Barack Obama. I paragoni si sono sprecati: dal realismo magico del García Márquez di Cent`anni di solitudine allo Hugo de I miserabili, dall`Harper Lee de Il buio oltre la siepe al Twain de Le avventure di Huckleberry Finn, sino a Borges, Swift, Lovecraft...
La ferrovia sotterranea (SUR, pagg. 376, euro 20, traduzione di Martina Testa), è un grande romanzo, anche se non così grande da accostarlo ai capolavori citati. Ancora una volta, i critici si sono fermati alla superficie della trama e dello stile: limitandosi a un`interpretazione che ha trasformato un romanzo a suo modo rivoluzionario in un libro di piacevole lettura (cosa che effettivamente è) che racconta con crudezza «commovente» l`America schiavista. La storia è quella di Cora, schiava in una piantagione di cotone in Georgia. Quando la sua sofferenza incontra quella del nuovo arrivato Caesar che le parla dell`«Underground Railroad», una rete di tunnel segreti, entrambi decidono di fuggire e di liberarsi dalle catene. Attenendosi alla trama - un dramma alla Via col vento riscritto con la magia stilistica dei Racconti di Sherwood Anderson - Amazon ha opzionato una miniserie, scritta e diretta da Barry Jenkins, premiato con l`Oscar per la sceneggiatura di Moonlight. Forse si vuole emulare il successo di Radici, lo sceneggiato tratto dal bestseller di Alex Haley (a cui Whitehead sembra rifarsi, soprattutto nelle scene più drammatiche: dalle navi negriere alla vita nelle piantagoni).
È bastato che ammettesse in un`intervista al New York Times di aver riletto García Márquez prima della stesura del romanzo perché la critica vedesse del «realismo magico» nell`aver reinventato il mito della «Underground Railroad», la rete clandestina appoggiata dagli abolizionisti che davano riparo agli schiavi fuggiaschi in una reale ferrovia con stazioni e binari. Invenzione che non è «realismo magico», ma solo un`interessante trovata più nelle corde di Thomas Pynchon, e anche un`idea di poetica e di narrativa quasi steampunk: la ferrovia sotterranea diventa un tunnel spazio-temporale che riconsegna all`invenzione la storia che Whitehead aveva già affrontato in Southern Novel of Black Misery, un saggio del 2009 apparso sul New York Times, e in John Henry Festival (minimum fax), romanzo storico costruito intorno a John Henry, lavoratore nero nell`epoca d`oro delle ferrovie, inarrestabile spaccapietre che compete con una trivella a vapore a costo della vita. Non mancano nemmeno i riferimenti all`immaginario contemporaneo: il cacciatore di schiavi Ridgeway sembra uscito da un film di Tarantino, aiutato da un aguzzino che gira con una collana di orecchie di Vietcong appesa al collo, come facevano alcuni soldati americani in Vietnam immortalati dal Michael Herr di Dispacci, considerato tra i migliori reportage di quella guerra (in Italia edito da Rizzoli).
Molte le pagine di orrore assoluto: come il primo dei tanti stupri subiti da Cora ancora bambina, sulla nave che la sta portando in America, da parte di un marinaio. In tre righe Whitehead fa comprendere la propria grandezza: «A causa della tenera età di Cora, inizialmente i suoi carcerieri non la costrinsero a subire i loro desideri, ma giunti alla sesta settimana di viaggio alcuni dei marinai più esperti la trascinarono fuori dalla stiva. Prima di arrivare in America aveva già tentato per due volte di uccidersi». Anche qui, però, non vengono in mente le scene di Amatissima (Sperling & Kupfer) del Premio Nobel Toni Morrison e certi passaggi de L`ultima vedova sudista vuota il sacco di Allan Garganus (fuori catalogo per Leonardo e speriamo presto ripubblicato da Playground). Mentre quando descrive gli schiavi messi all`asta al pubblico ludibrio, Whitehead ricorda Il colore viola di Alice Walker (Frassinelli), romanzo da cui Steven Spielberg trasse il film da Oscar. Whitehead si è documentato con fonti storiche come il recente saggio, inedito in Italia, The Underground Railroad che, attraverso testimonianze storiche e immagini inedite, ha ricostruito la storia della Ferrovia Sotterranea, di cui scrisse per la prima volta Harriet Beecher in La capanna dello zio Tom (1852).
In La ferrovia sotterranea, come nei precedenti libri di questo autore, il cuore pulsante della narrazione è da ricercare sottotraccia. Come quando Cora «vide una copia dell`Ultimo dei Mohicani deformata e gonfiata dall`acqua». Basta questo indizio che Whitehead inserisce con apparente noncuranza per comprendere la vera portata del libro. Perché Cora è anche il nome inventato da James Fenimore Cooper proprio per la protagonista di quel romanzo del 1826. E allora comprendiamo che Whitehead, descrivendo le tensioni razziali ai tempi della schiavitù, ci vuole raccontare un`altra America, quella che non ha ancora scacciato i fantasmi dell`Olocausto americano (che è il titolo del saggio di David E. Stannard, in Italia edito da Bollati Boringhieri) ovvero il più grande genocidio della storia: oltre 120 milioni di nativi sterminati. Un recente studio commissionato dal Congresso degli Stati Uniti ha rivelato che sino al 1974 il 42% delle donne indiane americane in età fertile è stata sterilizzata senza consenso. Ed è forse questo il senso vero e ultimo de La ferrovia sotterranea: un Paese dove la libertà è ancora una pura illusione.
«Che razza di mondo è quello in cui una prigionia perenne è il tuo unico rifugio? Era libera dalla schiavitù o ancora sotto il suo giogo. La libertà è qualcosa che cambia forma mentre la si guarda, così come un bosco è fitto di alberi visto da vicino ma dall`esterno, da un campo aperto, se ne vedono i limiti.
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