Per D’Alema è labile il concetto di etica

Massimo D’Alema si ostina a confondere l’etica dei comportamenti con la loro liceità e a farne un’equiparazione tout-court. Riferendosi alla scalata Unipol-Bnl egli afferma che nel suo ruolo di tifoso non ha compiuto alcun reato e che quindi non possono trovare cittadinanza i rilievi mossi su una presunta questione morale. In realtà non è che funziona sempre così e sovrapporre etica e diritto può essere pericoloso e fuorviante. Ad esempio, nel nostro Paese prostituirsi non è un atto perseguibile penalmente, ma è almeno dubbio il fatto che sia anche moralmente ineccepibile. Nell’evadere il fisco solo in talune casistiche si realizza l’ipotesi di reato: ma è difficile sostenere che sia eticamente corretto non pagare le imposte. I privilegi politici denunciati da Stella e Rizzo nel loro ultimo libro sono assolutamente legittimi, ma che possano pure trovare una favorevole accoglienza sotto il profilo della moralità non tutti sono disposti a riconoscerlo. La tesi di D’Alema, che sovrappone le due cose, rivela quantomeno una certa labilità del concetto di etica. Essa dovrebbe prescindere dalle previsioni della legge: i comportamenti individuali dovrebbero ispirarsi a principi che ciascuno di noi applica nella vita quotidiana per un personale e consolidato convincimento, indifferentemente dai limiti posti dal diritto, che rappresenta solo il confine estremo oltre il quale la generalità dei cittadini non può andare per non ledere gli interessi della comunità.

Il vicepresidente del Consiglio, con le sue parole, dà l’impressione di essere un paladino della mobilità etica, che si sposa pienamente con l’opportunismo e l’opportunità delle iniziative piuttosto che rispondere a un intimo convincimento.

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