La deriva pop del Grande Timoniere

Quadri, spille, gadget: a Parma l’ironica mostra «Mai dire Mao» dedicata al dittatore cinese

da Parma
Si può iniziare dal menu del self-service, «Ricette rosse la CuCina è vicina», con piatti tipo lotta progressista del raviolo, il riso fritto non è un dogma astratto. Oppure guardare il cortometraggio Film Rosso, una breve rassegna dell’Opera di Pechino ispirata alla mitologia rivoluzionaria e inframmezzata fra l’altro da uno spot della Diesel dove un giovane vorrebbe suicidarsi perché per via dei jeans non viene arruolato fra le guardie rosse. Si può provare a sorridere davanti al quadro di Piero Chiambretti, testimonial della mostra, che al posto dell’effigie di Mao ha messo Lele Mora.
Oppure guardare la rassegna con l’occhio del collezionista che cerca fra le migliaia di statuette di ceramica, ispirate a Mao e alla rivoluzione culturale, il pezzo unico da mettere in salotto anche se ai cinesi, ci hanno detto gli espositori, non garba tanto l’uso poco riverente che si fa della loro iconografia. O ancora si può girare fra gli stand con l’ansia del gadgetista che frequenta abitualmente le mostre mercato per portarsi a casa spille, giubbe verdi, cappelli, e ridere davanti alla tempera di Andrea Perone che ha raffigurato la maschera di Totò sovrapposta al volto di Mao su una borsa di carta che pronuncia la frase: «Grandi timonieri si nasce, io lo nacqui».
La mostra «Mai dire Mao. Servire il Pop» (fino al 30 settembre) è stata ideata dall’estroso Gherardo Frassa che all’inaugurazione avvenuta due giorni fa alla XXVI edizione del Mercanteinfiera di Parma, girava con la sua blusa blu, da operaio, non per esibizionismo ma perché lui, che maoista non è mai stato, si veste sempre così, da quando è diventato un collezionista di Mao memorabilia (aveva anche aperto un negozio a Milano, in Brera, per le signore affascinate dallo stile cinese minimal chic). La sua idea di organizzare una mostra pop ispirata a Mao è nata dal progetto Grafica e Sangue, in cui voleva raccontare le storia delle grandi dittature (ma gli sponsor hanno arricciato il naso). Convinto come Andy Warhol (il quale si fece fotografare vestito da guardia rossa) che Mao sia stata un’icona estetica tremendamente pop.
«Se il giudizio politico su Mao Ze Dong non può essere tenero - afferma - la sua natura di icona universale e pop può entusiasmare». Forse anche per un volto, quasi rassicurante nella sua immobile plasticità, che riesce a far ridere. E infatti alla nostra ridono tutti. Ridono gli espositori, 250 opere, 170 artisti, e neanche uno che sia disposto a dire qualcosa di sinistra, 1.000 le versioni del libretto rosso, e 10mila oggetti: poster, quadri, installazioni, abiti, video, articoli di design. E ridono anche i visitatori che comprano giubbe, cappelli, spille, e soprattutto statue di ceramica di ogni misura (la più divertente è quella del grande timoniere raffigurato come il grande nuotatore che indossa un accappatoio bianco prima del celebre tuffo nel Fiume Giallo, fra le più deprimenti quelle con gli intellettuali in ginocchio e un cartello al collo durante la rivoluzione culturale).
All’inaugurazione c’erano Piero Chiambretti che si faceva riprendere dalle tv con la sua faccia anch’essa molto pop fra le ceramiche di Mao, e il critico d’arte Philippe Daverio che illustrava la sua installazione, il libretto rosso di Mao schiacciato dal testo sul capitalismo di Adam Smith e un saggio di Braudel dietro una bacheca di vetro. «Due correnti di pensiero che hanno frenato il maoismo», ha spiegato Daverio che per la mostra ha composto alcune frasi riprese su un pannello dal gallerista e calligrafo Jean Blanchaert. Tipo questa: «In cosa consiste la potente eredità cinese? Nell’aver sostituito all’insalata greca gli involtini primavera, nell’aver cancellato in Andy Warhol l’immagine di Mickey Mouse...». Mao, in questa mostra pop, è il ghigno ferino riprodotto in vetro di Murano da Blanchaert e Signorotti sopra la celebre frase «la rivoluzione non è un pranzo di gala» (ma tradotta in inglese con «dinner party» fa meno effetto.
Ci sono le cento giubbe realizzate in formato ridotto da due artiste che si firmano Cognati Commercianti. Prima restauravano mobili e hanno ideato un’enorme installazione ispirata alla rivoluzione culturale: «Che cento fiori sboccino, che cento scuole gareggino». Si possono comprare a 200 euro l’una. Oppure la rivisitazione degli accessori delle ballerine del «Distaccamento femminile rosso», con lamè e raso, di Monica Bolzoni, stilista di Bianca e Blu, l’unica a dire: «Si tratta di un omaggio». E poi gli oggetti di design, un set da tavola di Mark Anderson, poster ironici su come si fa la propaganda, i modelli stilistici «Mao-metto Mao-smetto», i pacchetti di sigarette Maolboro: il comunismo invecchia la pelle.
Sembra poi che il faccione di Mao serva a far ridere anche quelli che non sanno nulla di lui. Come dimostra il video AnnoMao prodotto da Maurizio Chesneau e Barbara Corti che hanno girato per Milano con la maschera di Mao, suscitando fra i cittadini ilarità ed equivoci. Al punto che un signore si è avvicinato alla maschera, ha bisbigliato per vari minuti, confessando all’artista che la indossava chissà quali segreti e poi, accomiatandosi lo ha salutato dicendogli: «Ciao Romano» (nel senso di Prodi).


Ma poi, passato l’iniziale entusiasmo, finito di ammirare i quadri (ce n’è anche uno di Warhol), tutti o quasi sono tornati ai discorsi di sempre e la domanda più ricorrente che si sentiva alla Fiera di Parma era: «Ma come faremo a sopravvivere ai cinesi che ci copiano?».

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