Detroit, la «Ground zero» dell’auto Usa

A Detroit, in questo periodo, va tutto male: alla crisi che ha travolto le «Big Three», che qui e nei dintorni hanno i loro quartieri generali, si aggiunge il bilancio disastroso dei Lions, la prima squadra di football americano ad aver perso 23 partite su 24. Per gli addetti alle linee di montaggio di Gm, Ford e Chrysler, dunque, nemmeno la magra consolazione di vedere tenuta alta la bandiera di quella che è conosciuta come Motor City almeno dai propri beniamini. A Detroit, del resto, c’è poco da stare allegri. È forse la città più brutta d’America dove i pedoni che si incrociano sui marciapiedi si contano sulle dita di una mano: per incontrare un po’ di gente bisogna entrare in uno dei centri commerciali, come quello creato al Renaissance center, il grattacielo in riva al fiume che ospita gli uffici della Gm, oppure i ristoranti e i pub sparsi nella downtown. A Detroit, dove si gela d’inverno e fa un gran caldo in estate, non esiste un centro vero, le zone off-limits sono numerose, come i palazzi in stile liberty abbandonati, diventati rifugio per barboni e sbandati, dopo le rivolte dei neri negli ani ’60 e ’70. Basta un giro sul «people mover», la metropolitana sopraelevata che fa il giro di downtown, per rendersi conto di come sia difficile vivere qui: alle fermate, riscaldate nei mesi invernali da fastidiose luci a effetto micro-onda, spesso a fare compagnia al viandante è un poliziotto. Gli incontri sgradevoli sono sempre in agguato. E lungo il breve tragitto si fa conoscenza con la città fantasma. Ma per rendersi conto della desolazione che impera a Detroit, dove c’è chi favoleggia che il crimine sia diminuito per mancanza di cose da rubare, bisogna trovare qualcuno disposto ad accompagnarci in un tour attraverso le aree più depresse, quelle dove un tempo sorgevano le megafabbriche di Motor City. Ottanta dollari, mancia compresa, è la cifra pattuita con Rob, un corpulento autista nero perennemente attaccato al telefonino, che a bordo di uno scomodo monovolume Chevrolet promette di farci vedere l’altro «Ground zero» degli Usa.
Prima tappa è la Michigan Central Station, il cui interno è diventato una sorta di girone dantesco. Voluta da Henry Ford all’inizio del 1900 per favorire arrivi e partenze dei pendolari che lavoravano nelle fabbriche della zona, da vent’anni questa stazione è caduta in disuso. E ora, osservandolo a debita distanza («di più non mi avvicino - dice Rob - alla mia macchina ci tengo, e non solo a quella») l’edificio fantasma, immerso nella neve, mette i brividi. Intorno solo macerie e binari arrugginiti.
Il tour continua e, dopo una decina di minuti lungo la trafficata Michigan Avenue, un tempo percorsa dai commercianti di pellame diretti ai Grandi laghi, svoltiamo in una strada laterale e poco dopo ci troviamo davanti a quello che è rimasto dello storico impianto Cadillac e Buick di Hamptrack, altro sobborgo di Motor City. Questo bastione è ora assediato da ciminiere e capannoni dai vetri rotti. Si riparte verso la vicina Mexican Town: agglomerato di villette semidiroccate, dove sui pali della luce campeggiano sinistri manifesti che invitano la popolazione rimasta senza quattrini a vendere, per un pugno di dollari, effetti personali e la vecchia auto. Siamo vicini a Dearborn: impossibile non notare l’enorme palazzo che ospita gli uffici della Ford Motor Company. Nei pressi si trova il museo «Henry Ford», che racconta la storia dell’America. Da visitare. Dearborn è la cittadina più islamica degli Usa. E lo si intuisce subito: le scritte sono in arabo e l’ospedale che superiamo è riservato alle sole pazienti di sesso femminile. «La comunità che ci abita - ci ricorda l’autista - è composta soprattutto da siriani, yemeniti e iracheni». Lo stabilimento più vecchio del mondo, il mitico Rouge Plant della Ford, è qui. Lo contempliamo dalla Fort Street, parallela della Michigan Avenue, non prima di aver spiegato a un addetto alla sicurezza le ragioni della nostra curiosità. È un mix di fatiscente e nuovo, dove i capannoni che sfornano le auto di ultima generazione si confondono con quelli lasciati al loro destino.
Eppure, museo «Ford» a parte, qualcosa di bello a Detroit c’è. E non sono i casinò voluti dal sindaco Kwame Kilpatrick con l’illusione di creare una piccola Las Vegas, e nemmeno le zone residenziali di Troy, Bloomfield, Novi e Rochester dove i ricchi manager abitano in ville da mille e una notte.

«Detroit si può anche amare - confessa Pier Giorgio Traverso, che ci ha abitato per lavoro (ora è ad di Cadillac Italia) - anche se è una città al contrario: più ci s’avvicina al centro più è brutta. Qui hanno cominciato, sotto l’etichetta Motown, stelle come Madonna, Diana Ross, I Temptations. Eminem ci è nato. C’è tanta arte e cultura, anche se nascosti». Sarà.
PBon

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