Diecimila dispersi in Giappone E la sinistra specula sul nucleare

Eugenio Montale diceva che «la semplicità è difficile a farsi». La riforma della giustizia non è un testo poetico, ma si compone di cose molto semplici. Berlusconi si è finalmente deciso a provarci sul serio. E, naturalmente, siccome siamo un Paese in cui i guru dell’opinione pubblica di sinistra si comportano in modo sempre più fanatico, e incivile, si sta scatenando l’inferno. Un inferno fatto di menzogne, di manipolazioni, di depistaggi. La più grave manomissione è che i magistrati dell’accusa, quelli che fanno della militanza corporativa e sindacale una piattaforma per muovere guerra al «nemico assoluto», abbiano condannato una proposta del governo al Parlamento prima ancora di averla letta e che abbiano dichiarato senz’altro la mobilitazione generale nel Paese e nei media compiacenti.
La lotta faziosa di una parte dell’ordine giudiziario contro il potere legislativo, inaudita in un Paese liberale qualunque, è uno scandalo istituzionale. E il presidente del Consiglio superiore della magistratura, che è il capo dello Stato Giorgio Napolitano, sarà inevitabilmente spinto, sulla scia di suoi precedenti interventi, a richiamare i pm, non soltanto con la sua persuasione morale ma con i suoi poteri di primo magistrato d’Italia, al rispetto della Costituzione. In certi casi esercitare il proprio dovere di persuasione morale è affare di una semplicità che non è «difficile a farsi»: forniscano i togati una consulenza nelle sedi istituzionali, quando richiesti, e si conducano nella loro delicata funzione senza distrazioni politiche e senza aggressività verso chi ha il potere e il dovere di scrivere la legge di cui i magistrati debbono limitarsi a essere «la bocca». Senza una leale collaborazione istituzionale un Paese non si governa, e quel galantuomo di Napolitano è il primo a saperlo in virtù della sua lunga esperienza politica.
Ma veniamo agli elementi semplici di cui la legge di riforma si compone. Il primo è che il magistrato inquirente deve essere messo sullo stesso piano del difensore, mentre chi giudica deve stare al di sopra delle parti. Questo è la «separazione delle carriere». Senza, non c’è vera giustizia, c’è una grottesca caricatura della giustizia. Se l’avvocato difensore è un mendicante di diritti appena tollerato mentre il pubblico ministero che indaga e promuove l’accusa è un collega di chi emetterà la sentenza, lavora con lui, fa la stessa carriera, si appoggia agli stessi uffici, ha con il giudice una quotidiana frequentazione e una comunanza di interessi corporativi e professionali, la giustizia è negata in radice. Se chi oggi persegue domani può giudicare, e viceversa, alla negazione si aggiunge la beffa.
Il secondo elemento è la responsabilità verso i cittadini nell’esercizio della professione di magistrato. Se un funzionario qualsiasi sbaglia, e magari con dolo o comunque travolgendo i diritti del cittadino, quel funzionario paga ragionevolmente le conseguenze dell’errore, è responsabile civilmente del proprio comportamento. Senza questa regola, l’ufficiale dell’anagrafe assonnato e distratto può prenderci a pernacchie quando gli chiediamo un certificato all’ora del caffè. E l’irresponsabilità dei magistrati ha conseguenze più gravi di un dileggio o di un ritardo nel rilascio di una carta d’identità: pesa sulla vita delle persone, sul loro onore, sugli affetti, sulla salute, sulla libertà di noi tutti.
La terza semplice verità è che non si può essere processati una seconda volta dopo essere stati assolti. Perché? È facile da dire. Il diritto anglosassone stabilisce che si possa essere condannati solo se considerati colpevoli «al di là di ogni ragionevole dubbio» (l’avvocato Perry Mason nei vecchi telefilm contava su questa garanzia per trovare il vero colpevole e scagionare l’innocente). L’esclusione di ogni possibile ombra è un ancoraggio oggettivo del giudizio, una garanzia decisiva per le libertà civili. Da noi il principio è che si può emettere sentenza in base al «libero convincimento del giudice», un criterio meramente soggettivo. Bisogna invece che la libertà del giudice sia ancorata all’oggettività di una certezza come base per un giudizio nel giusto processo. Ed è ovvio che una sentenza di assoluzione lascia e lascerà sempre un ragionevole dubbio nell’aria, anche se nel giudizio di appello arrivasse una condanna. Dunque: niente doppio processo una volta che l’imputato sia assolto perché manca una assoluta certezza processuale.
A sinistra e tra i magistrati non faziosi cresce da anni la consapevolezza che queste riforme liberali sarebbero un progresso decisivo. Da Falcone a Violante a molti altri, anche giovani insofferenti dei vecchi schemi belligeranti, i fautori della separazione delle carriere di ieri e di oggi non si contano. I capi burocratizzati della sinistra, i rottamandi, alzano la voce per coprire questi dubbi. Lo stesso fanno i pm che scambiano il diritto per una baionetta su cui infilzare il nemico politico e civile.

A Berlusconi e Alfano spetta dunque di parlare un linguaggio costante, paziente, persuasivo e mai arrogante. E la battaglia è vinta. Gli italiani che giudicheranno con un referendum sanno da anni che la malagiustizia è un ostacolo etico alla loro libertà e un impedimento materiale allo sviluppo.

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