Il diktat arabo all'Onu

«Islamofobia». Finora questa parola aveva fatto la sua comparsa in documenti ufficiali della diplomazia araba sporadicamente, ma dal 30 settembre 2005 (data della pubblicazione delle vignette satiriche) il vocabolo ha cominciato a fare capolino con insistenza prima nel «Dossier a difesa del Profeta» compilato dagli Imam danesi dopo la pubblicazione delle vignette in Danimarca per poi approdare addirittura in un fondamentale documento dell’Oic (Organisation of islamic conference) che traccia la strategia dei Paesi Arabi per i prossimi dieci anni. I cinquantasette Paesi della Conferenza islamica hanno deciso di portare la loro battaglia sul terreno delle Nazioni Unite e chiesto l’adozione di una risoluzione di condanna dell’islamofobia i cui confini però sono talmente indefiniti e incerti che il rischio di scivolare nella restrizione della libertà d’espressione è sicuro. È uno dei punti culminanti di una strategia dei Paesi arabi pressati all’interno dal fondamentalismo islamico. La questione è finita sui tavoli delle diplomazie occidentali e John Bolton, ambasciatore americano all’Onu, ha già fatto sapere che tale richiesta è «inaccettabile», ma le pressioni della diplomazia araba sono molto raffinate, vengono da lontano e rischiano di favorire il disegno del Grande Califfato, idea chiave della dottrina di Al Qaida e dei fondamentalisti islamici che in questo momento tengono sotto pressione i regimi arabi.
Fin dallo scoppio del caos mediorientale sulle vignette gli analisti politici e le agenzie di intelligence occidentali hanno intravisto «la stessa mano» nel sorgere della protesta. La mano diplomatica e quella sulla piazza erano guidate dalla stessa mente. Anche il caso italiano non sfugge a questa classificazione. Dietro le proteste c’è un progetto che secondo fonti autorevoli trova le sue radici addirittura nel documento «La Jihad in Irak, Rischi e Speranze», diffuso sul web nel dicembre del 2003 e rapidamente divenuto uno dei principali libri guida dell’intellighenzia fondamentalista che - paradosso della storia - si è formata nelle università europee e statunitensi. È in questo manuale della guerra asimmetrica infatti che si può leggere una frase oggi illuminante: «Gli strumenti mediatici possono divenire più efficaci delle armi stesse». La campagna di falsi sulle vignette (ricordiamo che il dossier danese conteneva decine di immagini in realtà mai pubblicate) in questo senso è esemplare. L’operazione mediatica è stata efficace al punto di guadagnare il consenso della Conferenza islamica, tanto che il documento conclusivo ne accoglie le tesi e le rilancia sul tavolo della diplomazia internazionale. Da Jeddah sono partite le prime contromisure che si possono riassumere in quattro punti: 1. l’istituzione di un osservatorio permanente per il monitoraggio della islamofobia; 2. la richiesta di intervento delle Nazioni Unite con una risoluzione di condanna dell’islamofobia come forma di razzismo; 3. l’opposizione alla persecuzione razziale nei confronti dei musulmani; 4. puntare i riflettori sul pericolo costituito dal sionismo, dai neoconservatori, dai cristiani evangelici e dall’estremismo ebraico e dalla guerra globale al terrorismo. Sono punti controversi e delicati per le democrazie occidentali, punti sui quali la comunità internazionale è destinata a spaccarsi e l’Onu a precipitare in un’altra crisi.
Il grimaldello per far saltare il muro occidentale, ancora una volta, è quello di puntare sulle divisioni delle nazioni europee. Durante l’incontro con il segretario generale Ue Xavier Solana, non solo sono state ribadite le linee del documento finale del summit di Jeddah, ma viene chiesto al Parlamento europeo di varare leggi speciali contro l’islamofobia, di fare pressioni sull’Onu per varare la risoluzione di condanna e - dulcis in fundo - di varare un codice etico per i media europei, in particolare su aspetti riguardanti la diffamazione dell’Islam e del Profeta.
Il documento strategico sulle sfide del XXI secolo varato dalla Conferenza islamica parla della «promozione della Jihad pacifica che deve essere economica, educativa, ecologica, morale», ma nelle pieghe del discorso politico ci sono aspetti che inquietano: il riferimento ai pericoli del sionismo, la definizione secca di «occupazione» da parte degli alleati di territori in realtà controllati su mandato dell’Onu, un piano di diffusione del messaggio dell’Islam che sembra più orientato alla propaganda della Jihad (pacifica/militare) che alla crescita del dialogo tra Medio Oriente e Occidente.

Per l’Onu è un passaggio delicatissimo, il rischio è che il Consiglio dei diritti dell’uomo che dovrebbe rimpiazzare l’inutile e omonimo organismo che ora ha sede a Ginevra, parta con un risultato a cui il segretario dell’Onu Kofi Annan è abbonato: un fallimento.

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