Alle soglie dei 50 anni, Oliviero Diliberto entra nel numero dei sardi esternatori. Da mesi, compare puntuale al Tg e depone l'uovo di giornata. Più che il concetto espresso, vale la faccia del segretario dei Comunisti italiani. La natura gli ha dato un mento col buco alla Gramsci. Ci ha imbastito la carriera. Ha messo gli occhiali tondi del modello e, per il resto, si è tenuto quello che aveva: lieve strabismo, un ciuffo nero alla Mussi, ampia bocca filiforme. Un viso da orfanello da cui ti aspetteresti parole di pace. Diliberto, invece, è la quintessenza dell'odio truculento: Bush ha «le mani grondanti di sangue», Ariel Sharon è «un criminale di guerra», il «fascista» Berlusconi è un «pericolo per la democrazia». Pure della mite Emma Bonino disse che, se puntava alla Farnesina, doveva prima «passare sul suo cadavere».
Ma chi è questo Matamoro con la bile nero seppia, chiederete voi. È un transfugo di Rifondazione comunista. Oggi, è in piena concorrenza con Bertinotti. Poiché il sublime Fausto si è imborghesito, Oliviero fa casino sperando di rubargli voti. Il suo è un furioso scavalcaggio a sinistra. La smania è moltiplicata dalla lotta interna col compagno di partito, Marco Rizzo. Fanno entrambi la gara a chi le spara più grosse. Probabilmente, una battaglia per la leadership dei Comunisti italiani. Rizzo, che è parlamentare a Strasburgo e dovrebbe starsene zitto all'estero, bivacca invece in Transatlantico e dice la sua in tv. Oliviero mal sopporta la concorrenza e alza il tiro per imporsi. Giorni fa, sono inciampati l'uno sull'altro per l'Ucoii, la confraternita italo-maomettana che ha dato del nazista a Israele. Rizzo ha rivelato che il leader di costoro, Piccardo, stava per candidarsi col Pdci. Scomoda presenza per un partito del governo che ha schierato i soldati in Libano a fare da pacieri tra israeliani e musulmani. Così, Diliberto ha sbugiardato «l'amico Rizzo» con tre perfide righette: «Il compagno non è sufficientemente informato dei fatti. Piccardo non ha mai chiesto alcuna candidatura e tantomeno l'elezione garantita». Nessuno ha creduto alla smentita ma a tutti è stato chiaro che tra i due è cominciato il conto alla rovescia. Rizzo, lo dico per chi guarda i Tg, è quello grande e grosso, con la testa pelata. Un tipo tosto, con un ragguardevole passato di pugile professionista. Occhio al ring e vediamo come finisce.
Avrete capito che Diliberto è cattivello. Al fondo, c'è una monumentale spocchia. È convinto di essere un padreterno, in un mondo di nani. Bertinotti è un perito tecnico, Rizzo un boxeur, Berlusconi un bauscia. Lui invece è un accademico di alto lignaggio, un professore di Diritto romano che sa di pandette e di latino. A «Matrix», in un testa a testa preelettorale, ha beccato il Cav che, arditamente lanciato in un citazione latina, era inciampato nell'accusativo. «Non habet stadera in manu», aveva detto l'incosciente. «Staderam, presidente», ha corretto il professore, puntando accusatorio il mento col buco. La moglie di Diliberto, Gabriella, che era in platea, ha urlato fuori di sé: «Ha sbagliato, ha sbagliato» e al grido: «Diliberto sei grande, gli stai facendo un mazzo che metà basta», si è passionalmente avventata al collo del marito. Su questa base, i giornali hanno poi decretato che il palazzinaro di Arcore aveva perso il confronto.
Oliviero è venuto al mondo il 13 ottobre, San Romolo, del 1956 a Cagliari. Si vanta perciò di essere l'unico cagliaritano nella marea di politici sardi sassaresi: Berlinguer, i due Segni, Cossiga, Pisanu, ecc. Proviene da famiglia cattolicissima. Il babbo, funzionario della Regione, era un assiduo della Congregazione mariana dei Gesuiti. Oli però, impermeabile tanto al clima di casa che alla buriana sessantottina, a 13 anni era già comunista. Nel '69, mentre entrava in quarto ginnasio, gli dettero un volantino. Poteva gettarlo. Invece lo lesse e, caso unico nella storia del volantinaggio, ne fu folgorato. Si iscrisse alla Fgci e, quattro anni dopo, era già segretario regionale dei giovani comunisti. È stato sempre fedele al partito fino a quando si chiamò comunista. Con la svolta della Bolognina e il cambio del nome nel '91, Oliviero perse il suo nido. Ebbe un attimo di smarrimento ma, grazie a Bertinotti che aveva fondato un altro partito col caro nome, si riaccasò in Rifondazione comunista.
Facciamo però un passo indietro. Come ogni adolescente, anche Diliberto ebbe ribellioni. Non però quelle volgarotte dei barbuti con l'eskimo. Lui è stato sempre un tipo ben rasato e in giacca e cravatta, anche se sulle scarpe ci sarebbe da ridire. Tuttora, perfino col completo blu, porta le Clark scamosciate. La sua fissa era invece Parigi. Il babbo non voleva che ci andasse e gli ha negato i soldi. Oli però ha tirato dritto e, giunto nella Ville Lumière, si è mantenuto lavorando al cimitero. In fatto di camposanti, a Parigi non c'è che l'imbarazzo della scelta e, nel primo dove è entrato, ha subito trovato posto. Questa giovanile confidenza coi loculi è all'origine delle sue apocalittiche dichiarazioni intrise di cadaveri e mani insanguinate.
Tornato a Cagliari, si è laureato in Legge, cominciando la carriera universitaria. Molti lo ricordano insegnante impegnato e severo. Piaceva alla alunne, correva la cavallina, ma ha pescato la prima moglie nell'ambiente politico. Era stato preso sotto l'ala da Umberto Cardia, un sardista, padre nobile del Pci sardo. È lui a fargli le ossa. Nelle pause, Oli fa innamorare di sé Delia, la figlia di Cardia, e convola a nozze. Il matrimonio lo mette al centro delle attenzioni cittadine e innalza le sue ambizioni politiche. Delia, oggi magistrato, è però una ragazza chiusa e molto seria. Anche troppo per un giovanotto sgomitante come Dilberto e di lì a poco l'unione va in pezzi. Lo scapolo di ritorno punta gli occhi sul vivaio universitario e nota una brunetta tutto pepe che fa la spola con Sant'Antioco per seguire il suo corso. È la Gabriella, Serrenti di cognome, che abbiamo già visto saltellare euforica a «Matrix». Detto fatto e nozze bis. Il matrimonio regge bene ormai da una dozzina d'anni. Con o senza moglie, Diliberto ama fare tour nei residui Paesi comunisti e ne riporta impressioni memorabili. «Il massaggio più strepitoso l'ho provato in Corea del Nord», dichiara rientrando dal paradiso di Kim Jong. Inebriato dalle agavi dell'Avana ha osservato: «Cuba è la garanzia che si può sconfiggere l'imperialismo». Negli Usa rifiuta invece di mettere piede, con buoni motivi: «Detesto i chewing-gum. La Coca Cola non mi piace. Sono di Cagliari e preferisco il Maghreb».
Nel '94, l'anno in cui entra in Parlamento con Rifondazione, Diliberto diventa professore ordinario. Ha solo 38 anni e corre voce che sia il più giovane d'Italia in quel popò di ruolo. Figuratevi come si automonumenta, lui che già si ama tanto. Col tempo, è anche diventato un raffinato. Colleziona vasi di Gallé, il celebre cesellatore liberty. È un bibliofilo accanito, con una predilezione per Franco Maria Ricci e le prime edizioni del romanista Mommsen che legge in tedesco, lingua imparata soggiornando nell'Ateneo di Francoforte. L'arte lo porta a frequentare Vittorio Sgarbi. I libri antichi lo mettono a contattato con Marcello Dell'Utri. La comune sardità e un certo gusto di strafare, lo legano di amicizia con Nichi Grauso, il versipelle imprenditore cagliaritano. Grauso è suo testimone di nozze e, stando ai si dice (smentiti) anche il finanziatore delle rotative di Liberazione, il quotidiano di Rc. Insomma, se si tratta di arte, libri e amicizia, il Nostro è tanto liberale da farsela con gente di destra. È uomo di mondo.
Tra il '94 e il '98, Oli è legato a doppio filo con Bertinotti. Diventa direttore di Liberazione e la rilancia con lo slogan «mi consenta di incazzarmi», che per la sua grazia e la garbata allusione a Berlusconi è adottato con entusiasmo nei party della sinistra prosecco e tartine. Come direttore si fa cordialmente detestare dalla redazione che gli affibbia l'epiteto, perfetto nel suo genere, di Diliberja. Col subcomandante Fausto rompe quando costui, nel '98, toglie l'appoggio al governo Prodi e lo nega al successore D'Alema. Con Cossutta, stalinista vecchio stampo, Oli abbandona Rifondazione e fonda i Comunisti italiani. D'Alema lo premia nominandolo Guardasigilli. Riscalda la poltrona un anno e mezzo, al termine del quale dichiara: «Sono stato il migliore». Di quell'epopea si ricorda la premura con cui accompagnò sotto l'aereo la madre di Silvia Baraldini, la terrorista che tornava dagli Usa per scontare in Italia il resto della sua condanna a 43 anni.
Diliberto ha patito come nessuno il quinquennio berlusconiano. Si è tanto incattivito da prendersela perfino con Cossutta che ha costretto a uscire dal partito insieme alla figlia e deputata Maura. Una cacciata studiata a tavolino. Tra i Comunisti italiani si ragionava a mezza voce se togliere quel «comunisti» dalla sigla e la falce e martello dal simbolo. Cossutta decise di uscire allo scoperto e proporlo ufficialmente. Pensava, da patriarca, di poterselo permettere. Scoppiò invece un Quarantotto. D'incanto, sono riapparsi i Pepponi coi baffi gridando al sacrilegio. L'Armando ha capito tardi che era caduto in un tranello. Oli lo aveva mandato avanti per bruciarlo. La rottura è stata totale. Diliberto ha rifiutato anche di fare gli auguri al vegliardo per gli 80 anni. Tanto che Maura, al colmo dello sdegno, starebbe per riappacificarsi con l'ex nemico Bertinotti. Oli ha fatto la figura del perfido. Amico dei forti, spietato coi vecchietti.
Ma Diliberto se ne impipa di perdere gli amici. Lui si nutre di nemici.
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