LA DISFATTA DI UN RITO

Si voterà anche oggi fino alle 15, e dunque sarebbe arbitrario, per non dire temerario, dare per accertato il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita. Ma i dati di ieri sull’affluenza alle urne, inequivocabili, lasciano prevedere che il quorum non verrà raggiunto: ossia che la legge sottoposta al riesame popolare rimarrà in vigore come l’hanno voluta la Camera e il Senato.
Il flop di un appello agli elettori che sia, come questo, molto oneroso per i contribuenti, e che sia stato preceduto e accompagnato da un immane sforzo propagandistico, è frustrante. Molti milioni di euro buttati al vento, insieme a troppe parole enfaticamente declamate. Anche questi riti deludenti, lo sappiamo tutti, appartengono alla democrazia: ma sono riti che appaiono, in alcune circostanze - e senza riferimento ai quesiti del referendum - malinconicamente sterili.
Ritengo scontato che i fautori del voto e del sì attribuiranno il naufragio della consultazione alle pressioni della Chiesa, dei parroci, dei bigotti, delle beghine. Non nego che - essendo in discussione problemi riguardanti alti valori etici, morali e religiosi - la presa di posizione del Papa, dei vescovi, del clero abbia pesato. Ma non per questo, o non solo per questo, secondo me, mancherà il quorum (se mancherà). Mancherà - come regolarmente è avvenuto negli ultimi anni - perché di un istituto delicato ed eccezionale qual è il referendum - teoricamente solo abrogativo - si è voluto abusare: e la gente si è stancata. Prima di questo sulla fecondazione assistita, che ha coinvolto fortemente la società e la politica, sono stati disertati altri referendum che avevano una valenza infinitamente minore.
In base alla Costituzione il popolo, quando interpellato, dovrebbe rispondere con un sì o con un no a domande semplici e schematizzabili. Invece - anche con le migliori intenzioni, e lo sono sovente quelle dei radicali, ma talvolta lastricano le vie dell’inferno - si è preteso di forzare la struttura stessa del referendum rendendolo surrettiziamente propositivo, e lo si è chiamato in causa per questioni che sono complicate, che hanno un importante sottofondo tecnico scientifico, che dividono gli addetti ai lavori, che gli stessi parlamentari stentano a risolvere bene. Sono questioni che devono essere sottratte all’emotività e agli sbandamenti demagogici. Se no sono guai.
Gli elettori possono anche smarrirsi di fronte ai quesiti ingarbugliati che vengono loro sottoposti, ma colgono molto bene l’aria che tira sia nel mondo politico, sia nella società in cui vivono. E l’aria che tira è di stanchezza per il referendum. Hanno capito, gli elettori, che il referendum ha avuto momenti di risonanza politica e storica indubitabili, ma ormai è uno strumento logoro. Là dove era necessaria una discussione pacata e approfondita si è avuto invece, in quest’ultimo referendum come in altri, e proprio per il meccanismo dei quesiti, uno scambio di accuse se non di contumelie.
È possibile, anzi probabile, che la legge 40 non sia perfetta. La materia che tratta - e nella quale ha cercato di mettere un po’ d’ordine - è oggetto di continuo dibattito, e in continua evoluzione. Avremo modo di vedere presto se davvero - come ventilato dai più accesi promotori del sì - il nostro Paese diventerà una sorta di recinto privilegiato d’arretratezza clericale in una Europa avanzata.
La legge 40 avrà anche bisogno di ritocchi.

A mio avviso ne hanno però bisogno, e con assai maggiore urgenza, le norme che regolano il referendum. Bisogna attualizzarlo, renderlo praticabile, sottrarlo alle mattane pur generose di utopisti, far sì che gli italiani tornino a vedere il referendum come un istituto vivo, vitale, utile. Per ora non è più così.

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