Eolo Parodi*
LItalia è un Paese che dal punto di vista della comunicazione soffre di caldane. Per le persone che non fossero familiari con questo termine medico, potrei tradurlo con il più semplice, vampate di calore, o ancor meglio, fiammate di parole. Nel caso specifico mi riferisco alla recente polemica relativa all'applicazione della legge 194 sui consultori familiari e sull'interruzione volontaria di gravidanza. Senza voler entrare in merito alla questione, estremamente delicata e molto complessa, mi sembra che l'unica lezione che si possa trarre da quanto è successo è che in Italia ci sono molte leggi, più o meno condivisibili, che una volta approvate nessuno si preoccupa di valutare a distanza di tempo. Proseguendo questa riflessione il pensiero corre alle condizioni, spesso insostenibili, che vivono le famiglie con familiari affetti da malattie psichiatriche. Situazioni quotidiane che sovente sfuggono di mano, ma che emergono e che, paradossalmente, diventano oggetto d'interesse più ampio solo quando sfociano nella cronaca, inesorabilmente, nera.
Fra gli ultimi casi da prima pagina quello del malato di mente, da anni riconosciuto come pericoloso, che, in un piccolo paese vicino a Varese, ha fracassato il capo a martellate ad una ragazzina di 13 anni, tranquillamente seduta in un bar con delle amiche. I suoi concittadini, intervistati dalla televisione, hanno unanimemente espresso la convinzione che si sia trattato di un «assassinio annunciato», in quanto tutti conoscevano le condizioni di pericolosità sociale dell'omicida che era stato più volte ricoverato, sebbene per poche settimane. E ciò a norma della legge 13 maggio 1978 n° 180 (la cosiddetta riforma Basaglia). Di fatto in molte zone del nostro Paese, alle parole della legge, è seguito «il nulla» assoluto.
Certamente sono casi limite quelli che vedono la violenza più bruta ed incontrollata accompagnarsi alla malattia mentale, ma ciò non toglie che mancano gli strumenti validi per intervenire in maniera preventiva e, soprattutto, in molte regioni mancano quelle iniziative di recupero che avrebbero dovuto trasformare la terapia mentale anche in un processo di inserimento nel sociale. Quello che non manca, invece, nelle famiglie sono tanto dolore e il riconoscimento della propria incapacità a gestire il malato. Di fronte a tutto ciò, sarebbe finalmente ora di dire che il re è nudo, e che anche la legge 180 andrebbe valutata per quello che ha prodotto nel bene e nel male: evitando il pericolo più grave, che sarebbe poi quello di connotarla come legge progressista e, di conseguenza, far apparire come reazionarie e antidemocratiche tutte quelle posizioni, come quella che sto oggi proponendo, di revisione critica al fine di una migliore applicazione. Immagino già, infatti, la prima accusa che mi cadrà addosso: «Parodi vuole riaprire i manicomi...». Chi mi conosce sa bene che questa è l'ultima delle mie intenzioni: è che mi sono stancato di vedere che la Sanità, e le leggi come la 194 e la 180 in primis, vengano di volta in volta etichettate di destra o di sinistra, a seconda di chi le ha proposte o approvate. In tal modo, infatti, si dimentica che al centro c'è sempre un individuo malato che soffre e se ne frega delle nostre dispute. Dubito che questo mio appello alla ragionevolezza troverà ascolto, ma ci sono pochi casi di ideologizzazione di una norma dello Stato italiano paragonabili a quello che ha coinvolto nel passato la legge 180. Quando venne varata molti la accusarono di voler disconoscere l'esistenza della malattia mentale che pure può essere grave e pericolosa. A chi, più scientificamente, proponeva interventi mirati all'individuo si rispondeva che non si cura questo ammalato né con l'isolamento né con la perdita dei diritti civili.
In conclusione un dialogo fra sordi, fra chi a sinistra gridava allo scandalo ogniqualvolta si mettevano in dubbio i risultati raggiunti dalla legge e chi auspicava terapie e contenitori compatibili con la serietà del male e con la sicurezza di tutti. Di fatto, le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti: in presenza di forze politiche la cui parola d'ordine è stata per anni «la Basaglia non si tocca!», gli altri partiti politici hanno finito per ignorare, o per lo meno non affrontare concretamente il problema di una revisione, e sono poche le iniziative organiche e durevoli nate da una riconsiderazione della realtà, mirate alla reale tutela dell'ammalato, dei familiari, costretti a convivenze impossibili, all'interno di comunità in cui è certamente cresciuta l'accettazione sociale della malattia sociale, ma non della violenza che spesso la può caratterizzare. L'immobilismo legislativo in questa materia tuttavia non è solo colpa della sinistra, che pure a livello parlamentare farebbe barricate a difesa della legge, e difficilmente si potrebbe, nella attuale situazione politica di contrapposizione, spiegare che non si tratta di cancellare la 180, così come non c'è alcuna intenzione di abrogare la 191, ma di provvedere solo a quelle modifiche adeguate corrispondenti all'esperienza di questi anni. Questo Parlamento deve prendere atto che, con la complessiva realtà che continua a emergere dal Paese reale, lasciare che la legge resti, anche nella concreta ed integrale applicazione, quella che è, costituisce un atto di irresponsabilità. Bisogna rapidamente provvedere a identificare delle modifiche, come dovere etico e politico, tenendo certamente conto di posizioni diverse e denunciando fin da subito che la mera interdizione non costituisce una soluzione e crea dubbi sulla buona fede dei proponenti.
*Responsabile della Sanità per Forza Italia
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