da Motegi
LItalia a due ruote che vince ha il colore rosso Ferrari della Ducati, storica azienda di Borgo Panigale, periferia di Bologna. Una pulce da 30.000 moto allanno se confrontata con i colossi giapponesi, con la Honda, otto milioni di pezzi distribuiti nel mondo e proprietaria del circuito di Motegi, dove domenica è andato in onda il «Ducati-Day», con Loris Capirossi primo al traguardo e Casey Stoner campione del mondo. Ma anche lAprilia-Day, visto che la Casa di Noale, fondata a suo tempo da Ivano Beggio e oggi di proprietà del gruppo Piaggio, ha conquistato domenica lennesimo titolo mondiale costruttori in 250. Per lAprilia battere i giapponesi non è affatto una novità, visto che nella sua breve storia - il debutto nelle corse avvenne nel 1987 - ha già portato a casa ben 29 campionati, tra piloti e marche. Ma sempre nelle piccole cilindrate, e i colossi dellindustria motociclistica sono più interessati alla classe regina, alla 500, poi diventata nel 2002 MotoGP.
Ecco perché il successo della Ducati è qualcosa di straordinario, arrivato dopo lultima vittoria della MV Agusta nel 1974. Trentatré anni durante i quali i tifosi del motomondo si erano ormai messi il cuore in pace: «Al massimo possiamo vincere nelle categorie minori - dicevano -, perché di far belle cose nella classe regina proprio non se ne parla». Eppure molti costruttori europei - e in particolare italiani - ci hanno pure provato a mettere in discussione la supremazia giapponese. Ci andò vicino la Cagiva, quando nel 1994 conquistò il terzo posto nel mondiale 500 con John Kocinski, dopo essere anche stata in testa al campionato. Ma ci provò anche lAprilia, prima in 500 con unagile bicilindrica (poi copiata dalla Honda), con la quale cercò di battere, senza riuscirci, le più potenti quattro cilindri, e poi in MotoGP, con una innovativa tre cilindri con motore costruito dalla Cosworth. Un progetto che raccolse pochissime soddisfazioni, ma che ebbe il merito di aprire la strada al «ride by wire», il controllo elettronico del comando del gas, alle valvole pneumatiche e alle sofisticate centraline elettroniche, indispensabili sulle moto di oggi.
Tanta innovazione che troviamo anche sulla Desmosedici, con alle spalle, però, un progetto molto più solido di quello che accompagnò a suo tempo Cagiva e Aprilia e che ha permesso alla Ducati di conquistare il titolo ad appena cinque anni dal debutto.
ESCLUSIVITÀ. Sono tante le parti tecniche esclusive della moto che ha permesso a Stoner di chiudere il mondiale con ben tre gare di anticipo. A cominciare dal telaio, in tubi tondi di acciaio, totalmente differente dalle strutture in alluminio delle rivali giapponesi. Ma la vera peculiarità della GP7 è il motore quattro cilindri a «L» con distribuzione desmodromica, ovvero un comando meccanico, al posto delle molle, per muovere le valvole. Un sistema vecchio come il mondo ma sul quale solo la Ducati ha sempre creduto e che permette regimi di rotazione elevatissimi, con anche consumi più contenuti. Ecco perché Stoner fila come un aereo in rettilineo, con almeno 15-20 cv in più della Yamaha di Valentino Rossi.
ELETTRONICA. A fare la differenza cè anche la gestione elettronica della Magneti Marelli che, per la verità, fornisce anche la Yamaha. Ma a Borgo Panigale sono stati capaci di adattarla al meglio al proprio motore, con moltissimi controlli che rendono più facile la guida del pilota e gesticono al meglio i soli 21 litri a disposizione nel serbatoio.
GOMME. Rispetto a Honda e Yamaha, la Ducati ha anche avuto il coraggio di puntare sulle gomme Bridgestone. Una scelta fatta a fine del 2004, dopo una stagione disastrosa, con lobiettivo di poter conquistare almeno qualche Gp.
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