Le due Coree unite alle Olimpiadi

Seul e Pyongyang hanno deciso di partecipare per la prima volta con un’unica squadra ai Giochi del 2008

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Le due Coree si riunificano: nello sport, per ora, che ha però forti connotati simbolici. Alle Olimpiadi del 2008 e ai Giochi Asiatici del 2006 gli atleti di Seul e di Pyongyang parteciperanno con un team solo, che marcerà unito il giorno dell’apertura dei Giochi e in quello di chiusura. Non sarebbe una novità assoluta: l’hanno già fatto nel 2000 a Sydney e nel 2004 ad Atene, ma la differenza importante è che stavolta si presenteranno come un Paese sotto un unico nome anche nelle singole competizioni. Lo fecero a Roma nel 1960 i due Stati tedeschi che gareggiarono come «Germania», ma non gli portò bene: la fraternizzazione fu interrotta l’anno dopo dall’erezione del Muro di Berlino.
Nel caso della Corea però non è un gesto isolato. È in buona compagnia, anzi, sul terreno pratico, come su quello simbolico. Il Sud ha già deciso di fornire energia elettrica al Nord, 2 milioni di megawatt l’anno, per alleviarne le terribili condizioni economiche. L’intero politburo del Partito comunista nordcoreano ha fatto visita qualche settimana fa al Parlamento di Seul; e il capodelegazione, il braccio destro di Kim Jong Il, ha partecipato alle cerimonie commemorative dei caduti coreani durante la Seconda guerra mondiale. Più concretamente, nella lunga e a tratti dura prova di forza con gli Stati Uniti (che hanno incluso la Corea del Nord nell’Asse del Male assieme all’Iran e all’Irak di Saddam) a proposito dei programmi nucleari di Pyongyang. Sorprendendo l’opinione pubblica internazionale, il governo della Corea del Sud si è schierato, nei lunghi negoziati, più spesso dalla parte della Cina che dell’America, respingendo la linea intransigente portata avanti, almeno fino a ieri, dall’amministrazione Bush. Nelle dichiarazioni ufficiali, nelle note diplomatiche e anche in un importante test elettorale, i sudcoreani hanno manifestato la propria contrarietà a una crisi e soprattutto a un conflitto con l’altra metà del Paese. Seul è a 50 chilometri dalla frontiera col Nord. Inchon, sulla costa occidentale, è il luogo dove 55 anni fa sbarcarono le truppe Usa alle spalle dei nordcoreani che avevano invaso e occupato quasi tutto il Sud. Gli americani rovesciarono le sorti della guerra, assicurando lo sviluppo e la sopravvivenza di un regime democratico a meridione della linea del cessate il fuoco. Li comandava il mitico generale McArthur e una sua bronzea statua lo ricorda sul luogo dell’impresa. Come un eroe, almeno fino a ieri, poiché da qualche tempo il monumento è sempre più contestato. Ci sono state vere e proprie battaglie di piazza e per evitare altri incidenti la statua è oggi protetta da una guardia armata. Tra le spiegazioni c’è un dato ancora più rimarchevole: in un sondaggio condotto nella Corea del Sud l’agosto scorso dalla Gallup fra la popolazione in età di portare le armi, due su tre hanno risposto che, nel caso di una guerra fra Stati Uniti e Corea del Nord, sceglierebbero di combattere dalla parte di quest’ultima.
È di fronte a questi inattesi sviluppi che Washington ha ammorbidito nelle ultime settimane la sua linea nei confronti di Pyongyang. Non sembra più valida la «dottrina» esposta due anni fa dal vicepresidente Cheney: «Noi non trattiamo con il Male: lo sconfiggiamo».

In realtà ora si cerca un accomodamento, che blocchi i progetti nucleari di Pyongyang contro l’assicurazione, certo non più che ufficiosa, che l’America rinuncia, almeno per ora, a «cambiare il regime» nella Corea del Nord.

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