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Due e-mail inguaiano lo stratega di Bush

L’ex ambasciatore Wilson aveva fatto un rapporto sgradito alla Casa Bianca

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Ogni Amministrazione americana ha, in un modo o nell’altro, una sua «gola profonda». Un esponente altolocato che semina informazioni «segrete». Qualche volta contro l’interesse del presidente: è il caso di Mark Felt, che voleva vendicarsi di Richard Nixon e a questo fine operò raccontando in rocamboleschi incontri nel buio di un garage i più imbarazzanti segreti di stato a due cronisti del Washington Post. La sua identità è rimasta coperta fino a pochi giorni fa: fino a quando cioè non si è stati sicuri che Felt, che ha 93 anni e non è praticamente più in grado di comunicare con l’esterno, non farà ulteriori rivelazioni, magari sgradevoli per altri.
La «gola profonda» dell’Amministrazione Bush, invece, canta quello che vuole il presidente. È uno dei compiti in cui Karl Rove eccelle, e le sue mansioni sono tante e così importanti che egli, da manager abilissimo di due campagne elettorali per la presidenza è diventato anche uno dei principali consiglieri politici di Bush. Merito del suo intuito, che lo indusse a formulare subito dopo la strage terroristica dell’11 settembre 2001 a Manhattan una previsione quasi euforica: «Possiamo cavalcare questo cavallo fino alle elezioni del 2004». Parole spregiudicate, ma vidimate poi dai fatti.
Meno tranquilli sono i postumi di un’altra iniziativa che a Rove viene sempre più spesso attribuita e che non lo mette in luce particolarmente buona se non per confermare la sua brillante spregiudicatezza. C’è un pezzo di carta, finalmente, che lo coinvolge, nome cognome e data, con una operazione di «intossicazione» dell’opinione pubblica nei mesi di preparazione dell’attacco americano all’Irak: lo «smascheramento» (severamente e comprensibilmente vietato dalla legge americana) di un agente segreto della Cia al fine di intimidire lei e il marito, autore di un rapporto sgradito alla Casa Bianca.
L’indiscrezione affiorò in un articolo del columnist conservatore Robert Novak, che rivelò che Joseph Wilson, un diplomatico di carriera in quel momento a riposo, era il marito di un agente segreto della Cia che Novak identificò con il suo nome da ragazza, Valerie Plame. Wilson era stato incaricato proprio dalla Cia di una investigazione per trovare le prove che Saddam Hussein aveva tentato di acquistare uranio dal Niger, un Paese dell’Africa Centrale, che ne ha disponibilità minerarie. Lo scopo era evidentemente quello di accumulare dati a sostegno dell’intenzione di Bush di muover guerra all’Irak, con diverse motivazioni, la principale delle quali era la presenza sul suolo iracheno delle famose armi di distruzione di massa.
Wilson andò, vide, parlò, ispezionò e tornò a Washington con una conclusione diametralmente opposta ai desideri dell’Amministrazione: Saddam Hussein non aveva mai cercato materiale nucleare nel Niger.
Testimonianza sgradita. Ed ecco che poco dopo Novak rivela il nome della signora Wilson, rovinandole la carriera di spia. La polemica si accende subito su chi gli abbia fornito quell’informazione. Qualche giornalista, appare subito evidente. La magistratura di New York ne mette sotto torchio due, chiedendo loro da chi avessero appreso quel nome.
Sono due cronisti del New York Times. Una, Judith Miller, si rifiuta di rivelare la fonte, e per questo si trova ora in carcere. Il suo collega, Matthew Cooper, ha deciso invece di parlare. E rivela una trafila che, attraverso la redazione del settimanale Time, conduce direttamente a Rove. E un memorandum, ora pubblicato da Newsweek, conferma che egli parlò con Cooper prima della pubblicazione dell’articolo di Novak, che diede il via alla vicenda. Newsweek pubblica ora le e-mail che Cooper inviò a Michael Duffy, il suo diretto superiore a Time, dimostrando così che lo stratega di Bush era pronto a usare ogni tipo di informazione pur di screditare l’ex ambasciatore Wilson, che aveva criticato la Casa Bianca.
E visto che il caso rischia di ingigantirsi, da ieri la Casa Bianca ha smesso di negare il coinvolgimento di Rove nella soffiata, come ha fatto fino a oggi.

«C’è un’inchiesta, non vogliamo interferire», con questa frase il portavoce si è rifiutato di rispondere alle domande dei giornalisti.

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