Israele compie sessant’anni: dopo la giornata del ricordo dei più di 22mila soldati caduti nelle guerre che dal 1948 non lasciano questa terra, cominciano stasera le celebrazioni di Yom Azmaut, il Giorno dell’indipendenza, che dureranno tutta la giornata di domani. E a sessant’anni, questo piccolo Stato non può sedere a riposarsi neppure un attimo: corre nello stadio della storia fra due ali di folla. Da una parte chi lo ama e lo difende, dall’altra chi lo odia e lo diffama. Ed è logico che ciò che appare una gran festa per chi ritiene la democrazia un bene supremo, diventi un motivo per digrignare i denti per chi invece la ritiene un artifizio che cela ingiustizie e crimini a fronte di un’utopia palingenetica. In Italia la divisione è evidente proprio oggi, giorno in cui festeggiamo la nascita e la resistenza della patria del Popolo ebraico contro la diffamazione e le aggressioni che hanno punteggiato la sua vita. Il suo primo successo è proprio la sopravvivenza. Nonostante le crescenti minacce, dell’Iran e di tutto il terrorismo islamista.
Ma fra i nemici di Israele c’è anche una propaganda incessante e pervasiva che si sostanzia di una quantità inaudita di bugie che oggi sostituiscono una attendibile conoscenza dei fatti. La falsa conoscenza ispira purtroppo gli incendi delle bandiere e le vergognose bugie che si odono in queste ore all’Università di Torino nella conferenza che vuole contrastare la Fiera del Libro che si aprirà domani. Tutta la conferenza indetta non ha niente a che fare con la libertà accademica delle cui piume si pavoneggia, ma c’entra piuttosto con la mera politica dell’odio. Propone in tutte le salse il tema della «pulizia etnica» che Israele avrebbe compiuto nei confronti dei palestinesi: la tecnica è quella di usare un termine odioso, da pulizia etnica a apartheid, da olocausto a deportazioni, per appiccicarlo su Israele e farne quindi un paria indegno di vivere. Ma se si guarda dentro le etichette non si trovano altro che menzogne. La pulizia etnica non è mai stata nelle più lontane intenzioni della parte israeliana: semmai, l’intenzione di spazzare via il popolo ebraico è sotto gli occhi di tutti, ripetuta, scritta, filmata e stampata ogni giorno dai terroristi.
Se gli israeliani avessero perpetrato una pulizia etnica sarebbero dei veri incompetenti. Prendiamo per esempio Gerusalemme. Dal ’67, quando Israele annesse Gerusalemme Est, la popolazione araba è cresciuta del 266%, il doppio rispetto alla popolazione ebraica, cosicché la proporzione fra ebrei e arabi è di 66 a 34, mentre nel ’67 era di 74 a 26. Anche durante l’Intifada, con la chiusura, il muro e quant’altro, è cresciuta da 208mila a 252mila. E non si tratta solo di crescita naturale: Ziad al Hamuri, che guida il centro per i diritti economici di Gerusalemme, stima che circa 30mila arabi si siano spostati a Gerusalemme dalla costruzione del recinto. Del resto, anche il noto storico revisionista Benny Morris scrisse che mai gli ebrei avevano avuto intenzione di spostare gli arabi dai loro villaggi e che furono invece invitati e costretti dai loro leader a farlo, e che sin dal ’48 i padri fondatori di Israele, da Jabotinsky a Ben Gurion, hanno insistito per far restare i palestinesi anche dopo la partizione. Chi ne vuole sapere di più può leggere l’articolo di Efraim Karsh sulla rivista americana Commentary di questo mese. Due mesi prima della proclamazione dello Stato nel settembre 1947, due rappresentanti di Israele cercavano di convincere Abdel Rahman Azzam, segretario generale della Lega Araba, che «sia gli arabi che gli israeliani beneficeranno grandemente di comuni politiche di sviluppo». Gli arabi aumentarono di numero soprattutto nelle aree urbane a causa del benessere e dello sviluppo del nuovo Stato, sospinti tuttavia allo scontro da leadership estremiste. È una bugia che la legittimità internazionale di Israele possa essere messa in discussione, perché, se fosse vero, data la legittimazione del focolare ebraico in Terra d’Israele nell’ambito della risistemazione del Medio Oriente dopo la fine dell’Impero Ottomano e del colonialismo, tutti gli Stati Medio-Orientali andrebbero rifondati da capo.
È falso che la guerra fra palestinesi e israeliani sia dovuta all’impossibilità di trovare una sistemazione territoriale di condivisione: Israele ha troppe volte dato prova di essere disponibile a lasciare territori in cambio di pace senza che questo portasse ad altro che a rifiuti ideologici carichi di sangue. È falso che esista un «ciclo della violenza» o cieche rappresaglie israeliane: Israele ha sempre risposto agli attacchi per fermare ulteriori attacchi terroristi, o altri attacchi missilistici per strada, o per punizioni puntuali e definite che, di nuovo, promettessero la diminuzione dell’aggressività del nemico contro i suoi civili.
È falso che il cosiddetto «muro» sia un «muro»: su una lunghezza di 790 chilometri, una volta completato, la lunghezza della parte in muratura che serve a evitare spari da edifici alti nella zona sulle macchine e i cittadini di passaggio, sarà di 30 chilometri.
La maggior parte delle accuse a Israele sono diventate luoghi comuni che la gente non controlla, ma che beve insieme al caffè della mattina. Il recinto non stabilisce confine né annette nessuna terra; serve, come del resto i famigerati check point, a bloccare stragi di innocenti. E ha funzionato bene, dato che gli attentati sono diminuiti per il 98%. Non è vero che a Jenin ci sia stata una strage, non è vero che il bambino Mohammed al Dura sia stato ucciso dal fuoco israeliano, non è vero che i soldati uccidano bambini innocenti con premeditazione e se accade senza volerlo vengono sottoposti a dure inchieste. E non è vero che Israele abbia devastato il Libano. Sono stati gli hezbollah a devastarlo, così come è Hamas che affama i suoi a Gaza mentre Israele seguita a fornire derrate alimentari e benzina. Non è vero che Israele non rispetta le risoluzioni dell’Onu: aspetta solo di poter implementare quelle che stabiliscono che i territori debbano essere scambiati con condizioni di sicurezza.
Israele non detiene prigionieri senza processo, non tortura, non impedisce alle organizzazioni internazionali di entrare nelle sue carceri, ed è quindi insensato paragonare la detenzione di criminali e terroristi a quella di Shalit, Eldad e Regev, i soldati nelle mani di Hamas e Hezbollah. Israele non reclude i palestinesi in cosiddette «prigioni a cielo aperto»: intanto sia i Territori che Gaza sono aperti verso 22 Stati arabi circostanti e oltre, inoltre il divieto d’accesso in Israele varia e si modifica a seconda della minaccia terrorista in atto. E la minaccia è grande, concreta e definitiva per tutti quei bambini che, come Kobi Mandel, 13 anni, sono stati massacrati. E quella maggiore sofferta dai bambini palestinesi è la spinta ideologica a morire, a diventare shahid, che proviene dalla società palestinese stessa... Soprattutto, la menzogna più grande è quella ontologica, basilare, sul presupposto che Israele sia un fatto negativo per il mondo, cattivo, generatore d’odio. Basta guardare i libri di testo delle scuole o la tv israeliana per capire che ne esce un messaggio di pace, mentre dalle tv e dai blog di palestinesi e fiancheggiatori non esce che odio e minaccia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.