E in una postilla la rivelazione: «Sono l’erede, ma lui non era mio padre»

Figlio di un amico della madre, seppe da adolescente di esser stato soltanto riconosciuto dal grande filosofo

Difficile sciogliersi dall’attrazione irresistibile, magnetica, «sciamanica» di Martin Heidegger. Tanto più se si porta il suo nome. A Hermann Heidegger, secondogenito dell’ultimo maestro carismatico del pensiero del Novecento, non è riuscito di sottrarsi all’ombra imponente del padre: nemmeno cambiando strada, cambiando iter studiorum, cambiando gli abiti civili con l’uniforme e partendo per la campagna di Russia a costo di finire nei campi di prigionia sovietici. «Per tutta la vita mi sono sentito addosso la grandezza di mio padre» - confessava nella prima delle Conversazioni su Heidegger (L’ultimo sciamano a cura di Antonio Gnoli e Franco Volpi, Bompiani, pagg. 137, euro 6,80) -, perciò scelsi un cammino il più possibile lontano dalla filosofia».
Ma né l’arruolamento nella Wehrmacht allo scoppio della seconda guerra mondiale, né la sua cattura di ufficiale di fanteria prigioniero nei lager sovietici fino al ’47, né gli studi di storia - compiuti nel dopoguerra con il grande Gerhard Ritter -, l’insegnamento nella scuola, la carriera militare proseguita all’Ufficio di ricerca e allo Stato Maggiore dell’esercito fino agli anni ’60, distolsero il professor Heidegger Jr. dal dovere di rendere onor filiale alla statura del maître Heidegger Sr.
Da oltre un trentennio, da prima della scomparsa del papà - avvenuta nel 1976 - il figliol prodigo e reduce ufficiale è ufficialmente il curatore del lascito heideggeriano. Fu lo stesso Martin Heidegger a nominare responsabile unico e assoluto della propria opera postuma l’erede che appena raggiunta la maggiore età aveva preso a modello il nonno materno, ufficiale prussiano, e se ne era andato al fronte. Non fu un colpo di mano dettato dall’autorità paterna. Fu Hermann, anzi, a convincere l’autorevole genitore a destinare i suoi inediti alla pubblicazione. E fu con un argomento squisitamente militare che lo dissuase dal chiuderli per cent’anni in archivio come avrebbe voluto: «Papà - gli disse - se in futuro l’Europa sarà sconvolta da una guerra atomica, chissà se rimarrà qualcosa della tua filosofia».
Solo adesso, solo da un anno a questa parte, si sa quanto matura, adulta, libera da soggezioni fosse la sua decisione di assumersi una simile responsabilità. Hermann Heidegger non è il figlio di Heidegger. Nel luglio 2005 ha ammesso in una postilla all’epistolario dei genitori - pubblicato l’anno scorso in Germania - che «figlio legittimo, nato nel 1920, di Martin e Elfride Heidegger, all’età di poco meno di 14 anni seppi da mia madre che mio padre effettivo fu un suo amico di gioventù, il dottor Friedel Caesar, morto nel 1946». La rivelazione, aggiungeva, lo liberava «di un peso che mi ha oppresso per 71 anni».
L'intervista di cui in questa pagina proponiamo uno stralcio - la straordinaria versione integrale è pubblicata nel numero di Nuova storia contemporanea in edicola da domani - fu rilasciata al professor Giulio Milani il 28 aprile 2003: due anni prima che si svelassero i segreti di casa Heidegger. È un documento per molti versi eccezionale.

La testimonianza, densa di rievocazioni storiche, giudizi politici, esperienza biografica, formidabile intelligenza militare, resa da un uomo che, per gioco, il destino volle figlio dell’ultimo maestro della storia della filosofia, beffato dalla politica, sospettato di militanza e del tutto privo - sapeva l’erede soldato - «di animo militaresco».

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