E il posto di lavoro è sempre più «a chiamata»

Strumento principe della flessibilità per alcuni, solo un mezzo che infoltisce le file dei precari per altri, il lavoro su chiamata introdotto con la legge Biagi sta sempre più prendendo piede in Italia. Gli ultimi dati dell’Istat sono la cartina di tornasole del successo ottenuto dal cosiddetto job on call: una crescita del 75% negli ultimi due anni, in un certo qual modo riconducibile alla debolezza economica, ma anche segno di una forma contrattuale su misura per alcuni settori come la ristorazione e l’alberghiero (dove si concentra circa il 60% del totale dei lavoratori). Più in generale, tutti quei comparti produttivi che hanno bisogno di modulare le proprie esigenze occupazionali in base a picchi produttivi, solitamente stagionali.
Ecco perché il job on call (chiamato anche lavoro intermittente) interessa soprattutto camerieri, lavapiatti, custodi e operai, ma anche i lavoratori dello spettacolo.
Laddove, come nell’area dell’intermediazione monetaria e finanziaria, è invece richiesto un elevato tasso di specializzazione e la formazione del personale avviene spesso all’interno dell’azienda, questa forma di inquadramento contrattuale non viene utilizzata. E anche gli impiegati costituiscono una quota significativa solamente nel settore del commercio (36% circa nel 2007 e 30% nel 2009).
Significative sono, inoltre, le differenze di impiego dello strumento in base al territorio. Il Veneto è la regione che più di tutte sfrutta la «chiamata» del lavoratore (intorno al 20%); ciò contribuisce a fare del Nord-Est l’area in cui il ricorso al job on call è più elevato (circa 41%). Nel Nord-Ovest c’è un’alta concentrazione di lavoro intermittente in Lombardia (intorno al 17%), mentre il Centro presenta una maggiore dispersione tra le diverse regioni.
Generalmente basso è il ricorso al lavoro a chiamata nel Sud e ancor di più nelle Isole (rispettivamente 9 e 2% circa). Tra il 2006 e il 2009 le posizioni lavorative a chiamata registrano una progressiva crescita, interrotta temporaneamente dalla breve discesa dovuta ai cambiamenti normativi che hanno limitato la possibilità di stipulare nuovi contratti nella prima metà del 2008.
Il lavoratore «chiamato» è un dipendente a tutti gli effetti dell’azienda che ne ha richiesto le prestazioni. Una differenza fondamentale rispetto al lavoratore interinale (o in affitto), che continua a far capo all’agenzia di collocamento anche dopo l’assunzione.
«Le oltre 100mila unità medie annue di lavoratori assunti tramite job on call dimostrano che gli strumenti contrattuali non devono essere demonizzati a prescindere, ma utilizzati per gli scopi che si prefiggono, reprimendo gli abusi», commenta Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl.

«Il lavoro a chiamata - aggiunge - costituisce un’opportunità in più per il governo del nostro mercato del lavoro». «È importante - conclude Francesco Rivolta (Confcommercio) - comprendere e condividere che la flessibilità è un dato strutturale irrinunciabile per il sistema Paese e in particolare per i settori da noi rappresentati».

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