E presto il Quirinale potrebbe diventare un Eliseo

RomaL’anno di nascita è il 1958. Il padre è certo: Charles De Gaulle. Si chiama «semipresidenzialismo alla francese» e potrebbe rappresentare il futuro sistema politico dell’Italia.
Al nostro Paese, dicono in molti (Lega in testa), si adatta meglio del presidenzialismo americano e di quello austriaco, per non parlare del premierato inglese e del cancellierato tedesco.
Ma è tutta una questione di pesi e contrappesi di potere.
A coniare il termine «semipresidenzialismo» è stato nel 1978 il giurista, sociologo e politologo francese Maurice Duverger. Quello che caratterizza la più che cinquantennale storia della Quinta Repubblica è un sistema che prevede l’elezione diretta del Capo dello Stato, che ha ampi poteri di governo da condividere però con il primo ministro.
Proprio Duverger, in pieno dibattito sulle riforme costituzionali nel nostro Paese, disse nel 1996: «L’Italia dovrebbe adottare il sistema francese, di tipo semipresidenzialista con maggioritario a doppio turno, cercando di cambiarlo il meno possibile. E il motivo è semplice: perché funziona bene».
Lo presero in parola e il 4 giugno dell’anno dopo nella Bicamerale guidata da Massimo D’Alema in 36 dissero di sì a questo sistema di governo, facendolo prevalere sul premierato forte sostenuto dall’allora maggioranza di centrosinistra. Furono i leghisti a determinare la maggioranza assoluta dei 70 commissari. Dopo 4 mesi di latitanza dai lavori, fecero un blitz che ribaltò il risultato dato per favorevole alla premiership. Solo che allora la grande riforma costituzionale non andò affatto in porto e la Bicamerale saltò.
Tredici anni dopo l’Italia si ritrova a misurarsi con il «semipresidenzialismo» in salsa francese e a immaginare un Sarkozy al Quirinale. Che verrebbe eletto direttamente dai cittadini, con un sistema a doppio turno e ballottaggio tra i due candidati più votati, se uno di loro non superi subito la soglia del 50 per cento. Oltralpe lo stesso meccanismo è utilizzato per l’elezione dei parlamentari, che si svolgono in collegi uninominali, con due turni di votazione.
Il Presidente della Repubblica non può essere sfiduciato e gli spetta la nomina del primo ministro, che ha poteri minori rispetto a quelli dei capi di governo nei sistemi non presidenziali. Infatti, è il Capo dello Stato a indicare la politica del governo, le linee generali della politica estera e quella della Difesa e può sciogliere il Parlamento. Con questo sistema è possibile la «coabitazione», se le elezioni politiche vengono vinte dallo schieramento opposto a quello del Presidente della Repubblica. Lo abbiamo visto con il gollista Chirac all’Eliseo e il socialista Jospin capo del governo.
In questo caso, il ruolo del primo ministro acquista più rilevanza e il Presidente della Repubblica deve lasciargli un ampio margine di manovra.
Ma la riforma del 2002 ha reso più difficile la «coabitazione», portando da 7 a 5 gli anni di mandato del Capo dello Stato, in modo che la sua elezione coincida con quella del Parlamento. E il numero uno dell’esecutivo è eletto un mese dopo le presidenziali.
Ora si tratta di vedere come questo modello può essere declinato all’italiana.

Come conciliare il fatto che in Francia c’è un forte Stato centrale e poco potere alle regioni, mentre da noi il federalismo va avanti e questo sembrerebbe avvicinarci più agli Stati Uniti? E come cambierà il sistema elettorale dei parlamentari: si adotterà come Oltralpe il maggioritario uninominale? Tutte domande che cercheranno una risposta in questi giorni.

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