Guerra Libia

Ecco chi ha armato la rivolta

Il retroscena: i miliziani qaidisti redici dall'Afghanistan avevano accumulato veri e propri arsenali segreti

Ras Ajdir (Frontiera Tunisia-Libia) - Arrivano. Le coperte in testa, il volto terreo, gli occhi spalancati di chi fugge l’inferno. Un inferno che non li vuole. Sono lavoratori tunisini ed egiziani, disgraziati in sandali e pantofole sgusciati tra i focolai e le insidie di una guerra senza quartiere.

Una guerra a chiazza di leopardo che dopo aver tagliato fuori il sud circonda Tripoli, disegna perimetri minacciosi da Zuara e Sabrata fino a Zawiyah, tre città in un arco di 50 chilometri che le voci di confine danno per cadute. Stretto nell’assedio il rais sopravviverà fino a quando manterrà il controllo delle armi e dei soldi indispensabili per pagare i mercenari. Fino a quando il cerchio della paura gli garantirà il controllo di guarnigioni ed arsenali. Al sud la partita dei ribelli era più facile. Qui a nord, in questi 219 chilometri tra la frontiera e Tripoli la minaccia di Al Qaida, adombrata dal colonnello, è solo la boutade di un dittatore assediato. Al sud, in Cirenaica era, ed è, molto diverso.
Lì Al Qaida è il fondamentalismo sono di casa da decenni. Fin da quei caldi anni 80 quando Gheddafi ansioso di levarsi dai piedi migliaia di scalpitanti islamisti li lascia migrare verso le turbolente trincee afghane. Come molti altri dittatori crede di potersi liberare della metastasi trasferendola altrove. Invece non fa che coltivarla in vitro. Negli anni 90 quando i reduci rientrano in patria la pestilenza è più virulenta di prima.

I veterani afghani si trasformano nel Gruppo Combattente Libico, s’accampano sulle montagne intorno a Bengasi, fanno la spola tra Libia e l’Algeria, mettono a segno tra il 1995 e il 1997 due falliti tentativi di eliminare il colonnello. Nel 2009 fiaccati dalle campagne del rais depongono le armi, rompono con Al Qaida, accettano la resa. I loro arsenali non vanno però perduti. Qualcosa sulle montagne resta. Quegli arsenali rugginosi sono i primi ad alimentare la rivolta della Cirenaica. Con quelle armi viene dato, una settimana fa, il primo assalto alla caserma nel cuore di Benghazi. Quelle armi ritornate nelle mani dei vecchi militanti fondamentalisti convincono molti ufficiali governativi a mollare il colpo e unirsi alla rivolta portando in dote i loro armamenti. Tra quelle armi non vi sono sicuramente, come azzarda Gheddafi in un precedente discorso, lanciarazzi anticarro di provenienza italiana.

I vecchi Rpg usati dai ribelli sono l’arma di fabbricazione sovietica più usata dalle guerriglie di tutto il mondo dal Vietnam e dall’ Afghanistan sino ad oggi. Dagli arsenali governativi conquistati escono invece missili anticarro di fabbricazione francese come i Milan o russi come i Konkurs.

Ora, comunque, la partita per il controllo di armi e arsenali si gioca tutta sul fronte nord. L’aviazione è in larga parte nelle mani dei «Qheddafi» la tribù da cui prende nome e natali il colonnello e dovrebbe, a parte isolate defezioni, sostenere il rais fin a quando sopravvivranno le strutture necessarie a mantenere gli aerei in volo. Ma se si spegnessero le radio, scarseggiassero i rifornimenti o si chiudessero gli hangar lo scacco matto sarebbe vicino.

A rendere assai verosimile questo scenario non contribuiscono, nello scacchiere nord, né Al Qaida, né le droghe citate nei deliri mediatici del colonnello, ma le alleanze tribali. Costretto, per mantenere l’apparente coesione della sua Jamaharya, a distribuire brigate e divisioni tra gli ufficiali dei diversi gruppi tribali il rais sa di poter contare sul loro appoggio solo fino a quando sopravvivono le alleanze fra clan.

Ma gran parte di queste alleanze sono già defunte. Secondo le voci provenienti dall’interno i Warfalla gli Hasawna e le altre principali tribù sono da giorni sul piede di guerra. E i loro ufficiali non attendono altro che distribuire le armi ai rivoltosi.

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