Ecco perché Ciampi non dovrà sciogliere le Camere in anticipo

Paolo Armaroli

Il 13 maggio 1999 con 707 voti Ciampi al primo scrutinio è stato eletto alla suprema magistratura dello Stato dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali. Poiché ha prestato giuramento cinque giorni dopo, il suo settennato scadrà il 18 maggio 2006. A loro volta le Camere sono state elette il 13 maggio 2001 e si sono riunite diciassette giorni dopo. Perciò la legislatura terminerà il 30 maggio 2006. Dunque l'anno prossimo, a pochi giorni di distanza, dovrebbero esaurire il loro mandato sia l'attuale inquilino del Colle sia i due rami del Parlamento. Di qui il cosiddetto ingorgo istituzionale. Che fare?
In teoria lo si potrebbe evitare in due modi. O Ciampi si dimette anzitempo: un'ipotesi che il diretto interessato ha smentito a più riprese e con ragione, perché altrimenti il suo successore verrebbe eletto da un Parlamento in procinto di tirare le cuoia. O potrebbe invece procedere allo scioglimento anticipato delle Camere: una eventualità che il novellato articolo 88 della Costituzione non esclude più, qualora gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura. Ma perché mai il Quirinale dovrebbe sciogliere le Camere con un certo anticipo proprio quando il governo Berlusconi sarà interessato a completare l'attuazione del programma? La cosa non si spiegherebbe.
Bando alla fantapolitica istituzionale, dunque. Tanto più che la Costituzione è in grado di sbrogliare l'intricata matassa. Infatti essa prevede che se le Camere sono sciolte, o mancano meno di tre mesi alla loro cessazione, l'elezione del nuovo presidente ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle nuove Camere. Nel frattempo sono prorogati i poteri del capo dello Stato. Il guaio è che tutto è a posto e nulla in ordine. Ancora fresco di una laurea in Scienze politiche, Fassino - secondo Verderami (Corriere della Sera del 23 giugno) - la vede così: prima il presidente della Repubblica prorogato, cioè Ciampi, procede alla formazione del nuovo governo e poi il Parlamento elegge il suo successore. Ma questa consecutio temporum non è convincente.
Per prima cosa le nuove Camere dovranno eleggere i loro presidenti e gli uffici di presidenza. E già tali adempimenti comporteranno qualche giorno. Quindi i gruppi parlamentari dovranno procedere all'elezione dei loro organi direttivi. Solo a questo punto Ciampi potrebbe avviare le consultazioni per poi affidare l'incarico al leader della coalizione vincente. Vero è che dal 1994 in poi la designazione dell'incaricato si è trasferita in definitiva dal Quirinale agli elettori. Ma se nessuna delle due coalizioni dovesse prevalere in modo netto, un presidente in regime di prorogatio come Ciampi si assumerebbe responsabilità enormi. Un'assurdità.
E poi non ci sarebbero i tempi tecnici. Dalla riunione delle nuove Camere al conferimento dell'incarico, dopo le consultazioni al Quirinale, passerebbe almeno una settimana, se non di più. Per non parlare delle fasi successive: scioglimento della riserva; nomina del presidente del Consiglio e dei ministri; loro giuramento; presentazione alle Camere del governo; dibattito parlamentare; conferimento della fiducia. A conti fatti, andremmo ben oltre i quindici giorni entro i quali la Costituzione stabilisce che si riunisca il Parlamento per l'elezione del nuovo capo dello Stato. Pertanto - rifletta il numero uno della Quercia - sarà quest'ultimo, appena legittimato dal Parlamento, a procedere alla formazione del nuovo gabinetto. Nelle more il governo Berlusconi continuerà a restare in carica.


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