Cultura e Spettacoli

Ecco perché noi veri liberali non faremo la fine dei panda

Dopo l’appello degli studiosi americani contro l’ondata neo-keynesiana un gruppo di intellettuali suggerisce una ricetta per battere il protezionismo

Ecco perché noi veri liberali non faremo la fine dei panda

Negli Stati Uniti ha suscitato notevole effetto sull’opinione pubblica l’inserzione pubblicitaria a pagamento - apparsa sul New York Times, sul Washington Post e su altri giornali americani - in cui una lunga fila di economisti (tra cui i premi Nobel Vernon Smith, James Buchanan e Edward Prescott) ha espresso la propria contrarietà ai progetti neo-keynesiani della nuova amministrazione democratica. L’idea che si debba ricorrere a «più Stato» e «più spesa pubblica» per uscire da una crisi le cui origini sono essenzialmente nella politica monetaria della Fed e nei programmi assistenziali (particolarmente nel settore abitativo) non piace per nulla a questi studiosi chiamati a raccolta dal Cato Institute, uno tra i maggiori think-tank schierati a difesa del libero mercato.

Tra i firmatari, tutti attivi nelle università statunitensi, non mancano gli italiani: da Alberto Bisin a Michele Boldrin, da Gian Luca Clementi ad Andrea Moro, ad Adriano Rampini. Ma c’è da chiedersi, un poco provocatoriamente, se vi sarebbe stato un numero egualmente significativo di economisti delle nostre università disposti a sottoscrivere tale documento: tanto avverso allo statalismo neo-keynesiano dell’Obanomics. Un manifesto, quello americano, che offre una netta testimonianza di dissenso proprio nel momento in cui anche negli Usa si va profilando un pensiero unico dirigista.
Ovviamente, pure nelle università italiane qualche economista liberale c’è, ma si tratta di personalità isolate. Una tradizione che ha annoverato grandi studiosi come Francesco Ferrara, Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi, Antonio De Viti De Marco e Maffeo Pantaleoni, oggi può contare solo un minuscolo drappello di anticonformisti. È ad esempio significativo che sia quasi impossibile (una delle poche eccezioni è rappresentata da Enrico Colombatto) imbattersi in economisti legati alla cosiddetta «scuola austriaca». E va rilevato come questa importante corrente intellettuale - da Carl Menger a Ludwig von Mises, da Friedrich von Hayek a Murray Rothbard - sia stata introdotta nella cultura italiana essenzialmente grazie all’opera di filosofi e metodologi: Dario Antiseri, Raimondo Cubeddu, Lorenzo Infantino e pochi altri.

Ma se dobbiamo registrare una presenza limitata di liberisti nei dipartimenti di economia, questo dato si colloca nel quadro generale di un’Italia che - da tempo - appare restia a riconoscere le buone ragioni della proprietà privata e della competizione. Anche la fine della prima Repubblica non ha mutato il quadro. A partire dagli anni Novanta, insomma, molti hanno iniziato a dirsi liberali, ma connotando questo termine dei più diversi significati. Spesso ci si è richiamati al mercato senza neppure sapere di che cosa si parlava.
Eppure è ancora possibile nutrire qualche ragione di ottimismo. E questo perché vi sono taluni elementi che potrebbero giocare a favore di una rinnovata vitalità del liberismo.

In primo luogo, bisogna essere consapevoli del fatto che le politiche stataliste (da George W. Bush a Barack Obama, ma lo stesso può dirsi per i governanti europei) non pagano. Se il socialismo è stato fallimentare a Mosca e a L’Avana, non produrrà cose buone neppure a Washington; e se uno statalismo compiuto produce un disastro perfetto, uno statalismo «spurio» produrrà un disastro parziale. Ma sempre di guasti stiamo parlando.

La stessa crisi finanziaria dei nostri giorni è figlia in primo luogo di scelte economiche dirigiste e questa verità prima o poi sarà ammessa da un numero crescente di analisti. Per giunta, i mille piani che tutti i governi stanno predisponendo - salvando banche, industrie automobilistiche e molte altre cose - presto riveleranno per intero la loro pochezza: e si tratterà di evidenze che non potranno essere occultate in eterno.
Oltre a ciò, fuori del mondo universitario sta crescendo una rete di giovani studiosi che - grazie ad Internet, ai think-tank, alle case editrici, a talune imprese finanziarie - comincia ad elaborare ricerche del tutto eterodosse rispetto a quanto viene insegnato nelle università di Stato. Non è un caso che a chiamare a raccolta i liberisti d’America è stato il Cato Institute, un centro indipendente tanto dai partiti quanto dal mondo universitario, che fu fondato nel 1977 dall’imprenditore Charles G. Koch e dall’economista Murray Rothbard (una tra i «campioni» del libertarismo di secondo Novecento). È soprattutto in questi spazi intellettuali, in larga misura autonomi rispetto all’Accademia, che - negli Stati Uniti come in Europa - è oggi possibile immaginare il rinascimento di un pensiero che sia davvero critico verso gli orientamenti prevalenti.

È lungo questa prospettiva che si muove lo stesso Istituto Bruno Leoni, diretto da Alberto Mingardi e che, in perfetta coerenza con la propria ispirazione, ha in Sergio Ricossa il proprio presidente onorario. Nei suoi cinque anni di vita l’istituto ha pubblicato volumi, organizzato convegni e seminari, condotto ricerche, aiutato giovani ricercatori. Ma una tra le sue maggiori ambizioni consiste nel far emergere iniziative della più varia natura, sollecitando una crescente reattività in quanti hanno voglia di fare qualcosa per favorire una vera trasformazione culturale.
Se il Ventesimo secolo che ci siamo lasciati alle spalle è stata l’epoca dei totalitarismi e delle burocrazie pubbliche (di quello Stato che si prende cura di noi «dalla culla alla bara»), un’economia e una cultura affrancate dal potere statale possono delinearsi soltanto grazie ad un nuovo e diffuso protagonismo sociale. Una politica diversa può fare la propria parte e anche all’interno del sistema universitario di Stato c’è modo d’individuare qualche spazio, ma è ragionevole attendersi che se ci sarà una ventata fresca essa sarà portata soprattutto da realtà piuttosto diverse rispetto a quelle che fino a ieri hanno dominato la scena.

In fondo, chi voglia scrivere la storia del keynesismo non può limitarsi ad esaminare l’ambiente di Cambridge o le diatribe tra gli economisti accademici. In tutto l’Occidente, tale pensiero è stato tutt’uno con quel coacervo di interessi che ha fatto marciare insieme i grandi apparati partitici e le imprese desiderose di aiuti, una burocrazia pubblica pletorica e un sindacalismo sempre più staccato dalle esigenze dei lavoratori.

Il ritorno del liberismo, dopo il freddo inverno che stiamo conoscendo, non potrà avere luogo soltanto grazie a una riscoperta della teoria del ciclo economico che fu elaborata da von Mises o in virtù di una riflessione su quel parassitismo organizzato che fiorisce attorno alla spesa pubblica. Tutto ciò è importante e anzi è fondamentale, perché - come amava ripetere von Hayek (citando Richard Weaver) - «le idee hanno conseguenze». Ma è indispensabile che una cultura diversa s’affermi in ogni ambito, in simbiosi con pratiche sociali, interessi diffusi, moralità più autentiche.
La fragilità del pensiero liberista è figlia innanzi tutto di una società deresponsabilizzata e messa sotto tutela.

Probabilmente è da lì che bisognerà ripartire.

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