nostro inviato a Brescia
Voleva la perfezione, l'assassino. Voleva un omicidio senza colpevole, il rebus irrisolvibile e irrisolto, il giallo infinito, il sospetto strisciante e indimostrabile. Voleva sfidare la sorte, la morale e gli investigatori. E invece tutta la sua costruzione si è frantumata in pochi giorni. Troppi errori e troppe tracce. Il delitto perfetto è già imperfetto. La prova che il macello di Aldo e Luisa sia in quel garage è facile da trovare, perché non basta un detersivo potente a cancellare le macchie di sangue. E lì di sangue ce n'è tanto. Troppo. È il sangue di un uomo e una donna sezionati, con cesoie da giardiniere, come carne da macello. L'assassino pulisce, strofina. È sicuro di aver cancellato tutto. Ma le tracce restano e lui non lo sa. Pensa già alla seconda parte del piano: sale in macchina, viaggia nel buio verso un posto che ha già visto. È lì che si consumerà l'ultimo capitolo: lanciare i corpi sezionati in un burrone, laddove tra poche settimane sarebbe stato impossibile arrivare. La strada che porta al passo del Vivione è difficile sempre e, da ottobre a maggio è impraticabile, a causa della neve. Lo sa il killer: immagina che se lancerà lì i resti massacrati delle vittime non li troverà nessuno. Ci penseranno prima le bestie affamate, poi la neve, poi il tempo. Non va così, invece. Basta un testimone, un ragazzino di 14 anni, per smontare tutto.
Il piano non prevede errori. «È apparentemente perfetto». Lo dice il procuratore capo Gianfranco Tarquini. Lassassino gioca tutto sulla sua invisibilità. Nessuno lo conosce. Neppure i vicini. Non ha quasi amici. I suoi unici parenti li ha fatti a pezzi. Scomparsi, giù nel burrone. Ma linvisibile fa lunica scelta che non dovrebbe mai fare. Non torna a casa a dormire, ma fa tappa in albergo. Arriva tardi, intorno alle due di notte. Non si lasciano tracce del proprio passaggio in un delitto organizzato e pensato, non si dà un vantaggio a chi prima o poi verrà a chiederti conto di dov'eri quella notte. Ecco a che cosa servono gli alibi, che negli omicidi perfetti reggono fino alla fine. Senza saperlo, l'assassino il suo alibi se l'è giocato due volte quella notte. La prima nel suo garage, l'altra in quell'albergo, lhotel Giardino, a Breno, dove è stato visto, dove è stata anche emessa una ricevuta. Non l'ha scoperto nessuno per 18 giorni. Se ne fosse passato qualcun altro, con tutte le sue imperfezioni il giallo sarebbe stato comunque irrisolto. Senza i corpi, senza i resti, senza cadavere non c'è omicidio. La neve, il tempo e la fame degli animali selvatici avrebbero sepolto tutto.
È lillusione di tutti quelli che non pensano di essere scoperti. Quelli che fanno una vita normale, che aiutano anche i magistrati e i poliziotti nelle indagini, pensando che in fondo fregarli non è difficile. Quelli che non mollano e non cedono, neppure sotto tortura. Il killer dei Donegani non confessa perché nella sua testa non c'è prova che sia stato lui. Non si preoccupa, neanche quando viene visto vicino al luogo in cui saranno ritrovati i corpi. Sono già passati due giorni dalla scomparsa della coppia e nessuno se ne è ancora accorto. Va lì, su in montagna, forse per controllare. Non si nasconde. Anzi, si fa vedere, esce dalla macchina e mostra il suo volto. Non pensa neppure per un attimo che sarà un errore. Come il più banale degli assassini torna sul luogo del misfatto. Poi scende in città, a Brescia, e continua a seguire il piano studiato: adesso racconta che non sa che fine abbiano fatto le due persone scomparse, dirà anche che bisogna controllare nei loro «giri», negli ambienti che frequentavano.
Il castello costruito ha mura alte e forti, pensa. Ma sono mura d'argilla; si sgretolano non appena un granello si stacca. Il delitto perfetto è sempre più unutopia. Sette errori, sette passi falsi, che segnano la sua sconfitta. Il primo sono i resti, perché se ci sono i cadaveri c'è anche l'assassino. Il secondo è il suo viso, riconosciuto da diverse persone.
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