di Francesco Forte
La previsione del Pil per il secondo trimestre, quello da aprile a giugno, è tra il -0,1 e il +0,3% rispetto al primo. Rischiamo, cioè, di rientrare in recessione, nonostante l'operazione degli 80 euro in busta paga, che dovevano rilanciare la domanda interna di consumi, a partire da maggio. La chiave per capire quel che sta succedendo, la si trova in un altro dato, che è stato comunicato dall'Istat, ossia che in giugno il prezzo dei beni di consumo rispetto a giugno 2013 è diminuito dello 0,3% e il tasso di crescita dei prezzi dei servizi è sceso a +0,8%.
C'è, dunque, rispetto al giugno 2013, una vera e propria deflazione, ossia una netta riduzione di prezzi, tanto dei beni, quanto dei servizi, che i consumatori acquistano. Ed essa è drammaticamente consistente per i beni, per i quali i prezzi, che a maggio erano solo dello 0,1% inferiori a quelli del maggio 2013, adesso sono inferiori di ben 0,3 punti. Quel che è peggio è che i prezzi degli alimentari, quelli per la cura della casa e della persona, diminuiscono dello 0,5% rispetto al giugno del 2103. C'è una sola, significativa eccezione: quelli dei prodotti ad alta frequenza di acquisto che aumentano dello 0,3% sul giugno 2013. Risulta dunque evidente che la massa della gente, dal Nord al Centro e al Sud, impaurita dalla situazione - nuove tasse e aumento della disoccupazione - riduce tutti i consumi che si possono rinviare, o eliminare, o contenere. E si limita a quelli necessari per la vita quotidiana. E le imprese, di fronte a questa contrazione di domanda, tagliano i prezzi, riducendo gli utili, con il rischio, non infrequente, di andare in perdita.
Il Giappone, a causa della deflazione, consistente in questo fenomeno - cioè la tendenza dei prezzi dei beni di consumo a calare, tranne per quelli di alta frequenza (alimentari freschi, non lavorati, detersivi di uso quotidiano e simili) - è entrato in una situazione patologica di stagnazione. Infatti, non solo le imprese industriali che lavorano per la domanda interna non investono, ma disinvestono e perdono occupati, il che genera un calo di domanda, che causa nuova deflazione. Inoltre, i consumatori, vedendo che i prezzi calano, rinviano gli acquisti di beni durevoli, dall'abbigliamento, alle calzature, agli elettrodomestici, al mobilio, all'elettronica di consumo, alle auto e moto e bici, pensando che in seguito li compreranno a minor prezzo. La sindrome giapponese, in cui stiamo entrando, è molto pericolosa, perché è una spirale negativa, che si rafforza strada facendo. E la Banca centrale del Giappone non riesce facilmente a far uscire il Paese dallo stallo.
Però, quello del Sol levante, tutto sommato, è un Paese ricco, con la disoccupazione al 3%, mantenuta bassa grazie al cospicuo export, e può anche permettersi questa stagnazione. Noi no, perché la disoccupazione è al 13%, e il nostro reddito pro capite non è più superiore alla media europea, ma lievemente inferiore. E ciò è dovuto a cause che si possono eliminare con riforme utili alla crescita (quella del Senato non serve per accrescere il Pil, ma per dare poltrone alle corporazioni municipali). Le tre riforme per non cadere nella sindrome giapponese sono: meno tasse con meno spese, privatizzazioni per tagliare il debito e ampliare il mercato, privatizzazione del mercato del lavoro, liberalizzando i contratti periferici e quelli della legge Biagi, bloccati dalle leggi Fornero.
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