Bond Usa al 3% oltre la soglia di allarme

Preoccupano inflazione e Fed. Dai tassi sui biennali pericolo di recessione in arrivo

Bond Usa al 3% oltre la soglia di allarme

Dopo il tentativo andato a vuoto lunedì, ieri i Bond Usa a 10 anni hanno scavalcato la soglia psicologica del 3% per la prima volta dal 9 gennaio 2014. È un segnale d'allarme, subito captato da Wall Street scesa bruscamente (-2,2% a un'ora dalla chiusura), che riflette i timori di un rialzo dell'inflazione superiore alle aspettative e, di conseguenza, la possibilità che la Federal Reserve incaselli quest'anno altri tre rialzi dei tassi, dopo quello già deciso lo scorso marzo. Mette in guardia Hussein Sayed, chief market strategist di Fxtm: «Il 3% per sè è solo un livello psicologico, ma se la rottura al rialzo di quella soglia porta a ulteriori vendite dei Treasury, sarà un problema per i tori dell'azionario».

Le tensioni sul decennale, da qualcuno attribuite in parte al ritorno sulla scena dei cosiddetti bond vigilantes (gli investitori che vendono per sollecitare un adeguamento dei rendimenti alla paventata fiammata dei prezzi), avranno come conseguenza un ritocco verso l'alto dei costi legati ai mutui per la casa, ai prestiti personali e a quelli per le imprese. Non un buon segnale per la Borsa, nè per un Paese fortemente indebitato non solo sul versante pubblico, ma anche su quello privato, dove gli acquisti di beni durevoli (a cominciare dalle auto) e il finanziamento degli studi vengono per lo più sostenuti con i prestiti. Ma c'è un altro fenomeno, ancora più inquietante, che sta venendo a galla: è l'appiattimento della curva dei rendimenti tra i titoli a 10 anni e quelli biennali, balzati ieri al 2,5%. Non accadeva dal 2008. Uno spread di appena mezzo punto non è nulla, se solo si considera che a fine 2016 i tassi dei bond a breve scadenza galleggiavano attorno all'1,25%. Se questa curva ormai così sottile dovesse invertirsi, per l'America potrebbero essere guai seri: dal 1975, infatti, ogni sorpasso ha anticipato un ingresso del Paese in recessione.

Il momento, del resto, è piuttosto delicato per gli Usa. Donald Trump continua a suonare la grancassa dell'«America Great Again» allargando via via i fronti di contrasto con le altre nazioni. La disputa sui dazi con la Cina è suscettibile di qualsiasi esito; poi c'è l'accusa rivolta a Pechino e Mosca di manipolare le monete; infine, nel mirino è finita l'Opec (ma anche i Paesi esterni al Cartello come la Russia), colpevole di tenere artificialmente alti i prezzi del petrolio. Mentre l'inquilino della Casa Bianca prosegue la sua crociata contro tutti, gli ultimi dati macroeconomici appaiono controversi. L'indice Fed di Philadelphia sulla manifattura è crollato in aprile a -3 punti (contro i 15 del mese precedente), a segnalare una fase di contrazione delle attività economiche. La vendita di case esistenti è però cresciuta oltre le attese in marzo, così come la fiducia dei consumatori risalita questo mese da 127 a 128,7 punti.

Il quadro attuale indica che non sarà facile per la Fed completare il processo di normalizzazione della politica monetaria. Soprattutto nella seconda metà dell'anno e, in particolare, dopo giugno, quando la banca guidata da Jerome Powell avrà probabilmente deciso il secondo giro di vite ai tassi del 2018. Non che la Bce sia in una posizione più comoda.

Il rallentamento economico dell'eurozona nel primo trimestre e le fresche difficoltà della Germania testimoniate dal calo dell'indice Ifo sulla fiducia obbligano Mario Draghi a mantenere un atteggiamento molto prudente. Cautela che verrà ribadita quasi sicuramente domani dopo la riunione, quando si potrebbe avere la conferma che l'Eurotower aspetterà luglio prima di annunciare la fine del programma di acquisti.

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