Rodolfo Parietti
Più che di feeling, è questione di timing. Dalla tempistica delle prossime scelte di Federal Reserve e Bce dipenderanno le sorti non solo di Stati Uniti ed Eurozona, ma del mondo intero. Con il doppio appuntamento in differita di appena 24 ore (oggi tocca alla banca centrale guidata da Jerome Powell, domani a Riga, in Lettonia, sarà la volta dell'istituto comandato da Mario Draghi), la politica monetaria torna a rubare la scena ai dazi trumpiani, alla complicata gestione della Brexit e allo psicodramma nostrano sulla questione migranti.
Giusto così, come impone la delicatezza del momento. Se non suonasse troppo filosofico, si potrebbe parlare di Fed ed Eurotower come di anime inquiete alla ricerca di un centro di gravità permanente. Più terra-terra, meglio dire che il loro compito è complicato. Una mossa sbagliata potrebbe rivelarsi fatale. Vale per il successore della Yellen, chiamato a traghettare l'America fino alle sponde della normalizzazione dei tassi prima che il Paese incroci l'iceberg della recessione; vale per l'ex governatore di Bankitalia, al quale spetta decidere se mettere fine al quantitative easing già in settembre, oppure se allungare di qualche mese il piano di acquisto titoli.
Ecco perché diventa cruciale il bilanciamento perfetto tra costi e benefici derivanti da come - e con quale timing, appunto - le due banche si muoveranno nelle prossime ore. Il percorso di Powell è solo sulla carta più agevole di quello di Draghi. Sotto il profilo macro (inflazione al 2,8% annuo, disoccupazione ai minimi storici) la Fed ha ampia libertà di azione per una strategia aggressiva. Il rialzo di oggi dei tassi dello 0,25% è dato per scontato da settimane, ma restano ancora dubbi se Eccles Building vorrà incasellare prima della fine dell'anno altre due strette. Che rafforzerebbero il dollaro andando a impattare sui Paesi emergenti indebitati in greenback. E non solo. La segnalazione di altri due aumenti del costo del denaro potrebbe portare a un appiattimento della curva dei rendimenti tra i Treasury a lunga scadenza e quelli a breve. Nel 2000 e nel 2007, questo fenomeno fu da preludio alla recessione. Così, lo scenario ideale sarebbe quello di alzare i tassi-chiave senza forzature fino al 2021 sperando di non incappare in una crisi. Perché affrontare un ciclo recessivo nel mezzo di questo percorso sarebbe un disastro. La Fed non avrebbe margini sufficienti di manovra per invertirlo. Secondo alcuni studi, infatti, sono necessari tagli dei tassi da 3 a 5 punti percentuali per riportare il Pil sul versante positivo. Allo stesso tempo, la Fed rischia di provocare una recessione se accelera il ritmo di rialzo dei tassi per avere munizioni anti-crisi sufficienti. Insomma, un bel problema.
Anche la Bce ha i suoi grattacapi. Il tema tapering è in agenda, ma è tutt'altro che sicura una definizione immediata nella riunione di domani sull'uscita del programma, il cui proseguimento è per ora assicurato fino a fine settembre al ritmo di 30 miliardi di euro al mese. I falchi all'interno del board, a cominciare dai tedeschi, forti di un'inflazione all'1,9% spingono per arrivare presto al finis vitae del Qe per poi iniziare il dibattito sull'aumento dei tassi. La crescita nell'Eurozona ha tuttavia perso brillantezza, resta lo spettro di un mancato accordo sulla Brexit con Londra, e a consigliare prudenza c'è la gestione dei conti italiani da parte del governo giallo-verde nonostante le rassicurazioni fornite dal ministro dell'Economia, Giovanni Tria. L'Italia, attraverso la risalita degli spread e dei rendimenti (ieri il tasso dei Bot a 12 mesi è tornato positivo - allo 0,55% - per la prima volta da ottobre 2015), ha mostrato di essere vulnerabile alla speculazione. Rimuovere il Qe ci esporrebbe ancora di più.
Ecco perché Draghi, anche a costo di attirarsi le critiche di quanti lo considerano troppo sensibile alle debolezze tricolori, potrebbe tenersi le mani libere senza mettere ancora una data di scadenza alla stampella su cui Eurolandia si è poggiata negli ultimi anni.
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