Economia

Tasse, un problema di libertà

Un sistema fiscale oppressivo non si limita a ridurre il benessere, ma distrugge anche le libertà civili e individuali

La pagina del modello F24 alla voce Imu
La pagina del modello F24 alla voce Imu

Le tasse non riguardano solo l’economia di una nazione, ma anche la libertà dei suoi cittadini. Un sistema fiscale oppressivo non si limita a ridurre il benessere, la produzione e i consumi, ma distrugge le libertà civili e individuali poiché lo Stato, per sostenerlo, deve mettere in piedi una macchina di controllo e spionaggio simile a quella dei regimi totalitari; è ciò che sta accadendo a noi.

Charles Adams, tributarista americano e autore di un libro straordinario sulla storia della tassazione, ha spiegato come la parola esattore richiami direttamente il termine “estorsore”, poiché esazione significa proprio “torcere fuori”, cioè “estorcere”. Di fatto le tasse sono una forma di furto accettato socialmente poiché compiuto dallo Stato in nome di un presunto bene comune; ma quando questo bene comune cessa di esistere o non è più percepito come tale, ciò che rimane è solo il furto. Non a caso, nell’800, l’economista francese Frédéric Bastiat, uno dei padri del pensiero liberale, definì le tasse una “rapina legalizzata”; e d’altro canto, se esse sono chiamate anche “imposte”, è perché non sono frutto di un atto volontario dei cittadini ma di un atto arbitrario dello Stato.

Ancora prima di Bastiat il pensiero cristiano di San Tommaso ammoniva sull’uso sconsiderato e oppressivo della tassazione arrivando ad affermare che quando essa è troppo alta lo Stato si comporta come un ladro ed “è tenuto alla restituzione proprio come lo sono i ladri”.

Questo squilibrio tra le troppe tasse e la percezione della loro utilità trasforma il problema da economico a politico. Ogni eccesso di pressione fiscale rompe il rapporto fiduciario tra lo Stato e i cittadini, trasformando il primo in predatore e i secondi in prede. Lo Stato cessa di essere un principio ordinatore per diventare un invadente soppressore di libertà.

Le moderne democrazie (e di conseguenza i moderni parlamenti) nacquero proprio per limitare l’abuso dello Stato sui beni privati e sui patrimoni e per rendere credibile il rapporto fiduciario tra lo Stato e il cittadino, rappresentato dal principio del “no tax without representation” dei rivoluzionari americani.

Oggi assistiamo al paradosso che, nelle attuali democrazie, i sistemi fiscali riproducono l’autoritarismo ed il criterio espropriante dei modelli assolutistici.

Quando nel 1797 il Primo Ministro britannico William Pitt introdusse per la prima volta nella storia l’imposta sul reddito, molti si opposero al fatto che lo Stato avesse il diritto di indagare la vita privata dei cittadini, controllandone patrimoni, proprietà e attività lavorative; per questo l’imposta sul reddito doveva essere temporanea (come tutte le cose che poi diventano definitive). Per un suddito britannico di due secoli fa, un sistema di spionaggio fiscale come quello attuale in Italia e in altre democrazie occidentali sarebbe stato impensabile; quando, durante la guerra contro Napoleone, fu introdotta una piccola tassa sui focolari, ci fu una rivolta popolare perché la gente non accettava che agenti del fisco entrassero nelle case a controllare quanti caminetti vi erano.

Nella Parigi illuminista o nell’America dei coloni, una follia come lo “spesometro” probabilmente avrebbe comportato rivoluzioni armate e ribellioni; e del resto, quando uno Stato arriva a controllare i consumi, a presumere le spese, ad immmaginare le attitudini e ad imporre per sé più della metà di quanto un cittadino produce, la democrazia scivola verso la sua negazione.

Noi crediamo, perché così ci fanno credere, che le tasse sono un debito dei cittadini verso lo Stato; ma non è così. Piuttosto è vero che il livello di libertà di una nazione si misura dal livello di pressione fiscale: più le tasse sono alte, più sarà alta l’oppressione dello Stato nei confronti dei cittadini.

Nel 1918 l’economista americano William Graham Summer definì “l’Uomo dimenticato” colui il cui lavoro, la cui ricchezza, la cui produzione, i cui risparmi vengono utilizzati dallo Stato per i propri scopi; e quest’Uomo dimenticato, a cui non si pensa mai, “non sarebbe affatto dimenticato se vi fosse vera libertà”.

Ciò che i tecnocrati europei e i “simpatici tassatori” nostrani non ricordano è che le rivoluzioni e gli sconvolgimenti sociali sono sempre stati una questione di tasse: dalla fuga degli Ebrei dall’Egitto, alla caduta dell’Impero Romano, dalla fine della Spagna di Carlo V, alla Rivoluzione francese fino a quella americana.

Perché quando l’oppressione fiscale diventa intollerabile, succede sempre che l’Uomo dimenticato si ricorda di sé.

Commenti