Ecoturisti per caso

In migliaia pagano per andare in Messico a salvare le tartarughe. Spesso senza sapere cosa li aspetta

Ogni anno migliaia di italiani pagano biglietti aerei da 900 euro, fanno viaggi da 12 ore e soggiornano in tende nella giungla per tre settimane. Cosa non si fa per salvare le tartarughe di Zihuatanejo. I volontari perlustrano chilometri di spiaggia messicana incontaminata per scovare e sorvegliare il maggior numero di uova della specie a rischio di estinzione. Dopo anni di boom, l’entusiasmo per il turismo equosolidale comincia a mostrare qualche crepa. Chi parte per seguire la moda radical chic del momento, spesso si scontra con realtà molto più dure del previsto.
Naturalmente c’è anche chi ha motivazioni forti e il «fisico» adatto. Per 26 lunghi anni Giorgio Berti ha lavorato come agente di viaggio, girando il mondo alla ricerca delle mete turistiche più attraenti ed esclusive da proporre ai suoi clienti. «Non volevo più trovare l’esotico, sentivo il bisogno di autenticità» rivela sottovoce, e proprio da questa sensazione ha iniziato ad avvertire dentro di sé quella spinta, che di lì a poco lo avrebbe catapultato a fare un «campo di lavoro» in terra d’Africa, e a condividere ogni momento di vita con le popolazioni del luogo. Giorgio contatta quindi Oikos, una delle maggiori associazioni italiane di volontariato internazionale. Prenota il suo volo a mille euro. Profilassi antimalarica, zaino in spalla e inizia la sua avventura, quella vera, vissuta non più da semplice osservatore. Giorgio è appena tornato da tre mesi in Togo e ora si sente diverso, arricchito da un patrimonio di un’umanità fuori dal comune. I trasferimenti dalla capitale, Lomè, ai villaggi vicini e lontani, li dipinge come surreali e racconta: «i taxi collettivi sono vetture tutte rotte, tipo Peugeot, senza specchietti e tergicristalli anche in caso di pioggia dal ritmo incessante, con i sedili estesi orizzontalmente occupati da galline e da una decina di persone compresse che durante il percorso cantano e che si fermano lungo la strada battuta di terra o d’asfalto a comperare frutta e pane; dentro si respira a mala pena e magari sul tetto c’è un frigorifero che cade a pezzi, ma che si trasporta lo stesso». Capanne di cemento e fango, o di argilla rossa, danno forma a villaggi privi di corrente elettrica. Giorgio spiega «all’arrivo ero traumatizzato, ma ormai dovevo adattarmi a tutto: ho versato una quota di 200 euro per coprire le spese di vitto e alloggio mensili a Jed, l’associazione umanitaria riconosciuta dalle autorità del Togo». Nei villaggi non ci sono servizi igienici e confessa «la cosa drammatica è scavare ogni volta delle buche tra i cespugli, mentre per la doccia si va a prendere l’acqua nel pozzo, la stessa che bevono quelli del villaggio, armati di sapone e di una spugna ruvida».
La casa dei volontari la descrive come una spelonca piena di scarafaggi: «appena viene buio si dorme su una stuoia per terra, anche se può capitare di non chiudere occhio perché un pitone entra all’improvviso: lì ho creduto di morire». E la sveglia è alle prime luci dell’alba. «Il lavoro mi impegnava circa sei ore al giorno, ho piantato alberi, giocato e suonato jambè con i bambini, ho imparato a fare batik, statuette, collane e soprattutto a lavorare le zucche che diventano lampade; la scuola è un capannone all’aperto con la paglia sopra». La sensibilizzazione sulle malattie infettive e sulla malaria, mettendo almeno zanzariere nelle abitazioni, è stato un tema centrale del suo campo. Giorgio abbassa lo sguardo e ripercorre con la mente: «i bambini togolesi hanno tutti qualche forma di malaria, ma le medicine sono troppo care ed è difficile anche per noi volontari farle assumere loro costantemente»; in compenso sorride compiaciuto nel dire «hanno visi genuini, sinceri, allegri e con loro si ride sempre; ho comprato farmaci e ho regalato tutti i miei vestiti: dai loro ho capito che solo la gente comune può trasformare un paese».
I campi di lavoro in cui vengono spediti i turisti, offrono le più svariate attività: dal Messico a cercare le uova di tartaruga all’India a costruire scuole e pulire sentieri. Spesso, oltre a lavorare, gratis, bisogna anche pagare una quota associativa a chi organizza il campo. I risultati spesso non sono all’altezza delle intenzioni. Altre volte, è il turista che parte pensando a una vacanza alternativa e si trova a sgobbare e vivere in condizioni al limite della sopportazione.
Barbara Spinelli subito dopo la laurea in filosofia ha deciso di partire da sola alla volta dell’Asia. In lei l’idea del campo di lavoro è nata grazie al caso. Spiega che questo «era l’unico modo per cui i miei genitori sarebbero stati tranquilli, perché all’arrivo c’è una comunità di volontari proveniente da ogni angolo del mondo pronta ad accoglierti e a condividere con te gli stessi progetti, insomma non sarei stata sola». Barbara si rivolge allo Yap Italia, un’associazione senza fini di lucro, la cui attività principale, come per Oikos, è quella d’organizzare scambi bilaterali di volontari provenienti da Paesi diversi. Il volo per il Vietnam l’ha pagato 900 euro e appena arrivata al suo alloggio nei dintorni di Hanoi, ha versato 100 euro per tre settimane di permanenza. «Il tema del mio campo di lavoro era l’attività di animazione in un ospedale di Hanoi, nel reparto malattie terminali di bimbi appena nati fino agli 8 anni d’età e l’impatto è stato fortissimo» racconta Barbara. Ogni mattina insieme agli altri volontari «facevamo tavole rotonde per decidere di mettere in scena spettacoli o teatrini per strappare un sorriso ai bambini, e andavamo a comprare matite e pennarelli; nel pomeriggio pedalavamo sotto il sole fino all’ospedale che era in condizioni igieniche pietose: stanze minuscole piene di scarafaggi con venti bambini stretti nei letti». Per Barbara l’esperienza che ha fatto è stata contraddittoria: «Ho visto la vita con occhi diversi e ho avvertito un senso d’impotenza davanti alla sofferenza dei bambini che insegna a ridimensionarsi, allo stesso tempo però è prevalso l’egoismo, perché avere davanti situazioni così disperate fa stare meglio con se stessi; nei weekend anziché tornare in ospedale preferivo viaggiare. Mi sono resa conto che sono partita perché alla fine “fa figo” raccontarlo e che se fossi davvero così motivata, ora farei volontariato anche nella mia città».
C’è infine chi, avendo sborsato la quota associativa, finisce con l’aspettarsi un corrispettivo, cioè una sistemazione con uno standard minimo di comodità. Spesso invece si finisce in posti senza servizi igienici e corrente elettrica, a dormire su panche di legno.

Un po’ troppo per chi sta solo seguendo una moda.
Qualcuno diceva che se esistesse un angolo d’inferno destinato ai turisti, sarebbe sicuramente colmo di istruzioni per il viaggio. Non sempre i proverbi hanno ragione.

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