«Taglierò tutto quel che posso... voi non toccate niente».
Ernest Hemingway
al suo editore
Il 2 gennaio 1929 - con ancora nell’anima i postumi dell’Oktoberfest dove aveva annegato il dispiacere per i continui rifiuti editoriali - un omone timido e geniale, alto due metri, varcava la soglia della Scribner’s Sons sulla Quinta avenue. Portava con sé il manoscritto del suo primo romanzo: 330mila parole, 380 personaggi con nome e cognome, 1.113 cartelle. Quando l’editor Maxwell Perkins - lo stesso di Fitzgerald e Hemingway - lo sfogliò, gli rispose una cosa sola: «Tagliamo. E di molto». Thomas Wolfe accettò a malincuore. Ma anche dopo che lo ebbe ridotto di un terzo, Angelo, guarda il tuo passato rimane uno dei capolavori epici della letteratura americana.
Più che i tagli, però, oggi vanno di moda le condensazioni di lusso per lettori frettolosi: l’ultima è di Matteo Codignola, che ha inscatolato Moby Dick nelle 150 pagine di Un tentativo di balena (Adelphi), libriccino di nascosta meditazione sulla figura professionale dell’editor, quella persona che - in un’epoca in cui la letteratura si fa effimera non per tradurre la fugacità della vita, ma per adattarsi a un mercato sempre più effimero - davanti a ogni manoscritto si domanda: «Come rendere questo libro più abbordabile per il lettore pagante?».
«La fruibilità - commenta Laura Bosio, editor Guanda di Gianluca Morozzi, Guido Conti, Paola Mastrocola, Gianni Biondillo e altri - è insieme un obiettivo, un bersaglio e un feticcio. Ma non assecondare la pigrizia dei lettori non è a priori un merito letterario. Finnegan’s Wake di Joyce merita la fatica di essere decifrato, ma si può dire altrettanto dei testi di chi ha tentato di imitarlo?». Ha mai suggerito a un autore di complicare anziché chiarire? «Certo. Uno scrittore può lasciare all’interno del suo testo parti opache o irrisolte. Nelle Anime morte di Gogol c’è una descrizione di due pagine del bagaglio di Cicikov, o in Madame Bovary quella minuziosa di una torta nuziale, e non la si dimentica, perché è una piramide alla stupidità borghese. Valéry diceva che c’è un solo genere che non si può accettare ed è quello noioso». Dunque nessun pericolo per gli esordienti di omologazione semplificatrice ai gusti del pubblico? «Non me ne preoccuperei. Mi viene in mente quando Vissani disse: la crisi della cucina francese mi ricorda la crisi del romanzo, una storia ricorrente. Poi arriva qualcuno che se ne infischia dei generi letterari, sforna un capolavoro, applausi universali, e si ricomincia daccapo. Giuseppe Pontiggia commentò: “Non allarmiamoci, è solo il parere di un cuoco”».
Ma suggerendo ai propri autori di guardare anche e soprattutto al lettore, gli editor non favoriscono un livellamento di scrittura? «Quali editor? - replica Antonio Franchini, responsabile della narrativa italiana per Mondadori -. Io non sono uno che dice “riscrivi di qua, riscrivi di là”. Anche se mi è capitato più volte di suggerirlo. Non penso al lettore e all’opera come due poli tra i quali si debba stabilire un “compromesso” di leggibilità, semmai un “patto”. Penso che la leggibilità sia una virtù in sé, ma che proporla a tutti è una sciocchezza. Un buon editor fa risaltare le differenze tra gli scrittori che pubblica, non le smussa in nome di un’idea predefinita di mercato. La leggibilità non è garanzia di successo, le librerie sono piene di libri leggibili che non si vendono».
Stessa risposta da Paolo Repetti che insieme a Severino Cesari cura Stile Libero, per Einaudi: «L’editor innanzitutto ascolta l’autore quando questo ha bisogno di mettere alla prova fuori dalla sua testa l’idea alla base del suo prossimo romanzo. Noi gli forniamo un ascolto silenzioso, simile a quello della psicoterapia. E, ricevuto il manoscritto, non calcoliamo quante copie potrebbe vendere nel caso lo uniformassimo - e si può fare - ai gusti vigenti. Verifichiamo che la storia cammini con le sue gambe, come nel caso di Ammaniti, o se la voce dell’autore, come nel caso di Aldo Nove, esca in tutta la sua intensità. E se mi arrivasse Moby Dick sulla scrivania, sarei un idiota se non lo pubblicassi così com’è». Nessun successo costruito a tavolino? «No. Anche nel caso dei “cannibali”, non si pianificò nulla. Il pubblico era già predisposto alla sgradevolezza della loro prosa, così come adesso cerca i noir italianizzati di De Cataldo o Lucarelli. Tuttavia non diciamo alle nuove leve di imitarli. Miglioriamo, invece, ciò che gli autori ci portano: a volte sono romanzi profondamente condizionati dallo spirito del tempo, come tutti noi del resto, ma questa critica rientra in un discorso culturale più ampio. Occorre farsi sorprendere. Una volta mi aspettavo da Ammaniti la sua tipica commedia horror e invece arrivò Io non ho paura. Fu Severino Cesari a cogliere per primo la forza del libro».
«Non dico mai agli autori: voglio un libro alla Moccia, alla Fallaci - aggiunge Alessandro Dalai, editor costruttore (in senso letterale, come per Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano) di numerosi successi commerciali -. A parte che bisognerebbe trovare chi lo scrive, e bene, su commissione, e non è facile, ma poi dovrei essere convinto che il pubblico desideri romanzi del genere. E non è detto. L’editore che sa ciò che vuole il pubblico è un ciarlatano. Così come quello che semplifica un testo perché crede a priori che venda di più, essendo più accessibile». Non avete editato nemmeno Faletti? «Naturalmente no. Anche se un piccolo editing è stato fatto al romanzo d’esordio».
Insomma, un clima sereno aleggia in Italia tra editor e autori, che paiono darsi sorridenti la mano sopra i cadaveri di libri tutti uguali. Al contrario del clima tempestoso che circola nelle memorie degli editor anglosassoni. Leggete in Stet: An editor’s life di come Diana Athill riusciva ogni due pagine a scontrarsi felicemente con i suoi autori (tra cui il futuro premio Nobel V. S. Naipaul) per questioni di stile.
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