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El Alamein, La Russa: "Qui combattè mio padre ma lui non ha più voluto ritornarci"

Il ministro visita i luoghi storici e rievoca la vicenda familiare: "Papà promise sempre di venire, ma poi preferì guardare avanti". Gli italiani assaltavano a piedi i carri britannici. Poi pure lui fu catturato"

El Alamein, La Russa: "Qui combattè mio padre ma lui non ha più voluto ritornarci"

nostro inviato a El Alamein

Arriva da ministro della Difesa nel luogo dove suo padre ha combattuto. Arriva insieme al presidente della Repubblicana Napolitano per un ruolo ufficiale, ma celebra in mezzo alle dune di sabbia che furono il teatro di una delle due battaglie più importanti della Seconda guerra mondiale un rito tutto privato. Ed infatti è proprio qui, sulla scalinata del bellissimo sacrario, che La Russa racconta ai giornalisti questo corto circuito di emozioni storiche e private, i giochi della memoria che quel luogo gli ispira.
Ministro, qual è l’emozione più forte, oggi?
(Sospiro) «Beh, non posso negarlo. Ovviamente sono qui per ricordare tutti i combattenti italiani, tutti i soldati che si batterono in condizioni disperate ed in modo eroico. Ma sono qui, senza poter dimenticare che qui, in mezzo a queste dune, ha combattuto mio padre».
Se uno le dice El Alamein, lei che cosa pensa?
(Sorriso) «La prima cosa curiosa è che il nome non è quello. In originale, gli egiziani chiamavano questo luogo Al Alamein. Ma si sa, la lingua dei vincitori... Però, ovviamente, il nome di questo luogo, così come ci è stato tramandato, non ci può che evocare la storia di questi soldati, anzi dei ragazzi, perché erano tutti giovanissimi, che si trovarono qui, nel 1942 a combattere nel deserto».
Parla da ministro della Difesa, adesso?
«Parlo da italiano. Questi furono dei ragazzi che dimostrarono, malgrado i pregiudizi, anche dei nostri alleati, tutto l’incredibile valore dei soldati italiani. E non è un sentimento nazionalistico, la storia e i documenti ci dicono che, alla fine della battaglia, questi soldati riuscirono a ottenere l’ammirazione di tutti i nemici».
Ci è mai venuto con suo padre?
(Sorriso) «La stupirò. Non è mai tornato nemmeno mio padre».
Come mai?
«La prima cosa, che per me è stata anche un esempio, è che non ha mai avuto il senso del reduce, nel modo più deteriore in cui viene intesa la parola. Faceva politica, sarebbe potuto venire quando voleva, ma era proiettato in avanti, come molti di quegli ex ragazzi. Mi ripeteva: “Ci andrò dopo, dopo”. E a furia di dire dopo non è venuto mai più».
Perché?
«Perché la memoria è un problema delicato. Per esempio lui non aveva traumi, ma non ne ha mai parlato volentieri».
E quando parlava, che cosa raccontava?
«Era nella fanteria, nella divisione Pavia. La cosa più drammatica è, come noto, che si trovarono totalmente tagliati fuori da qualsiasi tipo di rifornimento. Avrebbero dovuto ritirarsi molto prima dei dodici lunghi giorni di battaglia perché non c’era più neanche un gallone di benzina da mettere nei loro mezzi».
E invece?
«Mi raccontava che procedevano così: fino all’ultimo giorno assaltavano a piedi i mezzi degli alleati e poi procedevano con il carburante rubato agli inglesi».
E poi, come è finita la sua storia?
(Altro sospiro) «Ovviamente fu catturato. Gli inglesi offrivano delle facilitazioni ai prigionieri che sceglievano di collaborare».
E lui?
«È tornato da non collaboratore a guerra finita, anzi dopo. Nella mia famiglia si ricordava che aveva rivisto mia madre soltanto nell’estate del 1946, al pari di tanti altri che avevano avuto lo stesso destino».
Quindi, per lei, questo non è un semplice calendario ufficiale di visita da ministro.
«Nooo... Pensi che ho fatto salti mortali per riuscire a inserire nell’itinerario, oltre alla visita al sacrario, al cimitero degli ascari e alla residenza di Paolo Caccia Dominioni, l’uomo che per cinque anni recuperò le salme nel deserto e progettò questo bellissimo mausoleo, anche la visita alla famosa iscrizione del Settimo: Mancò la fortuna, non il valore».
Ci teneva molto?
«Sì. Ci sono delle frasi che diventano dei simboli, e quella, a ben vedere, è davvero la migliore sintesi di ciò che è accaduto ai nostri».
Insieme a Stalingrado, El Alamein decise la Seconda guerra mondiale.
«È vero, ho letto da poco un romanzo di Enrico Brizzi che racconta, con un volo di fantasia, la morte di Mussolini nel 1960, immaginando che non fosse entrato in guerra. Ma è sempre difficile immaginare la storia con i se e con i ma».
E che impressione le ha fatto questo libro?
«Attenzione, lo scrittore è un antifascista dichiarato, non vorrei essere equivocato. Ma è certo che il vero errore di Mussolini fu l’ingresso in guerra. Mussolini pensava di fare come per la guerra di Crimea del 1856, dove, con un pugno di cadaveri, Cavour si guadagnò il diritto di sedersi al tavolo dei grandi. E invece, andò come sappiamo».
Fu una grande sottovalutazione del nemico...
«Sì, c’è una bella battuta del giornalista Giovanni Ansaldo che mi pare un’ottima sintesi: se avesse solo visto l’elenco telefonico di New York del 1940, con 20mila nominativi, e lo avesse paragonato a quello di Roma, con solo 200 famiglie provviste di telefono, evidentemente ci avrebbe pensato bene».
Lei si trova qui, mentre il Partito democratico fa la sua manifestazione di opposizione...
«Per me, i toni di quella manifestazione sono stati esasperati. È stato un errore. Ma se lui desidera dare un segnale, il 4 novembre, per la festa delle forze armate può raccogliere un’occasione in cui unirsi anziché dividersi».
Che fa, lo invita con lei nella tribuna d’onore?
«Volentieri. Però ho voluto che non ci fosse nessuna tribuna autorità.

Può venire in prima fila con me».

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