da Roma
Ma davvero Elsa Martinelli debutta in teatro? Anche lei, dopo Sandra Milo e Claudia Cardinale, per non citare il precedente a Broadway di Elizabeth Taylor e i tremendi scivoloni a Las Vegas di veterane come Zsa Zsa Gabor e la scomparsa Lana Turner ha deciso di affrontare l'impervia strada del palcoscenico? La notizia è ghiotta ma rischierebbe di diventare patetica se ci trovassimo di fronte a una star sul viale del tramonto invece di essere ammessi a giudicare una signora che, nonostante conti ormai settanta primavere, è levigata e luminosa come una peonia. E che, bontà sua, mi dicono si permetta persino il lusso di affondi impietosi nei confronti del cinema e del mondo dello spettacolo. Vero o falso, signora Martinelli?
«Non ho mai fatto né mai farò dell'ironia gratuita. Mi limito dolorosamente a contestare certi begli spiriti».
Di chi parla, scusi?
«Dei signori del cinema americano. A costo di passare per un'ingrata dato che proprio a Hollywood, e non a Cinecittà, cominciò accanto a Kirk Douglas la mia carriera d'attrice».
Allude a qualcuno in particolare?
«A Mr. Tarantino, che diamine! Come si fa a diffamare il nostro cinema dopo che per anni, a detta sua e dei suoi colleghi, ha sempre spifferato di aver imparato tutto dai cineasti di casa nostra? Anche se, purtroppo, al giorno d'oggi anche il cinema italiano ha le sue colpe».
Quali, per esempio?
«Per esempio la conduzione del Festival di Roma. Che, tanto per dirla tutta, non doveva nemmeno nascere in contrapposizione a Venezia. E che, comunque, non doveva presentarsi come un omaggio ai tycoon di Los Angeles con Nicole Kidman a far gli onori di casa. Come se da noi non ci fossero né Sofia né Claudia».
Senti senti. Questa accorata difesa del made in Italy sottintende forse un ritorno allo schermo?
«Nella vita mi è sempre piaciuto rischiare a favore del nuovo, dell'inedito, dell'inesplorato. Non avevo mai fatto della televisione, e mesi fa sono apparsa in Orgoglio. Non avevo mai figurato in un film sperimentale e, per far piacere a un amico, un anno fa ho girato un cortometraggio dove, ad anni di distanza dalla Notte brava, il film di Bolognini dov'ero una simpaticissima passeggiatrice romana, ho di nuovo indossato i panni di chi esercita il mestiere più antico del mondo...».
E adesso è la volta del teatro, no?
«Che, guarda caso, al tempo stesso non è un debutto».
È apparsa all'estero sulle tavole del palcoscenico?
«Quasi. Perché in America ho partecipato a due commedie prodotte da una rete televisiva».
Ma in tv manca a un attore la presenza del pubblico...
«È vero. Ma negli Stati Uniti, a differenza di quel che accade da noi, una pièce si prova in studio a tavolino per settimane come se ci si preparasse a un debutto e a volte, come è accaduto a me, quando si recita è previsto il pubblico in sala».
Con chi ha lavorato negli Stati Uniti?
«Con Charles Boyer e Margaret Rutherford, ovvero la classe parigina accoppiata al self control di marca anglosassone».
Torniamo a Otto donne. Cosa l'ha sedotta nel copione di Thomas portato sullo schermo in Francia dalla Deneuve e Fanny Ardant?
«Quel cocktail spregiudicato di battute spiritose che ci scambiamo una con l'altra come se fossimo dei soldati che giocano con delle cariche esplosive».
Chi ci sarà con lei?
«Agli ordini del regista Claudio Insegno, troverete Caterina Costantini, una veterana del teatro brillante, la bellissima Corinne Clery e quel talento strepitoso che è Eva Robins».
E gli abiti di scena? Saranno modelli firmati creati apposta per lei che, quando era l'indossatrice italiana più famosa del mondo, ha esportato la nostra moda da Tokio a New York?
«Su questo argomento, mi conceda di pronunciare il fatidico no comment».
A proposito degli Usa, da lei amati e odiati, mi dicono che il suo libro autobiografico Io sono come sono sta per essere tradotto nelle Indie di Colombo. Proprio nessuna gratitudine e nessuna nostalgia degli anni passati in California?
«Ho nostalgia di alcuni adorabili compagni di lavoro come Robert Mitchum o Charlton Heston, ma non di quel mondo asfittico tanto simile a una fabbrica. Una sensazione orribile che mi prendeva alla gola, e che nessuno capiva. A eccezione di Orson Welles con cui girai International Hotel, che mi approvava incondizionatamente».
Se dovesse riassumere la sua ascesa nel mondo dello spettacolo con una parola, quale sceglierebbe?
«La fatalità. Il caso. Il destino».
Sono già tre...
«Ma il significato è uno solo. Chi poteva prevedere che Capucci chiedesse a una Martinelli di quindici anni di indossare il bikini per un défilé a Palazzo Pitti e che a diciotto apparissi sulla copertina di Life, se non la mia amica fatalità?».
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