Politica

Eppure io dico che la patria va festeggiata

In vista del 17 marzo 2011 - quando ricorreranno centocinquant’anni dalla dichiarazione dell’Unità d’Italia - i preparativi della data si svolgono sotto i segni delle lacerazioni, dei malumori, delle polemiche. Avevo io stesso lamentato alcuni giorni or sono - prendendo spunto dagli entusiasmi americani per la totale riapertura al pubblico della Statua della Libertà - la mancanza da noi d’un giorno e d’un monumento che apparissero simboli condivisi del Paese. Non essendo tali né il troppo partigiano - in ogni senso - 25 aprile, né l’altare della Patria, da qualcuno irrispettosamente paragonato a una enorme macchina per scrivere di vecchio modello, né i quasi dimenticati 4 novembre e Redipuglia. L’Unità potrebbe, anzi dovrebbe essere un giorno capace di mobilitare le istituzioni e di toccare il cuore dei cittadini.

Non è così, e ce ne accorgiamo tutti. Sul Corriere di lunedì scorso Ernesto Galli Della Loggia ha lamentato che un pomposo comitato di garanti delle celebrazioni, presieduto da Ciampi, agisca nel vuoto, e che sia il governo Prodi - alla grande - sia poi il governo Berlusconi abbiano ufficialmente inserito nelle celebrazioni stesse i soliti finanziamenti a pioggia di opere locali; a volte utili alla collettività e a volte utili ad apparati e potentati del posto. Nel dibattito si è inserito, su Libero, Vittorio Feltri per sostenere, in buona sostanza, che dell’Unità non gliene importa nulla a nessuno, e che questo scoraggiante dato di fatto non può essere occultato da ritualità retoriche. Inutile festeggiare, secondo Feltri. Sono d’avviso opposto. Non perché mi sfuggano il torpore e il disinteresse sociale e ufficiale per l’anniversario dell’Unità, ma perché credo che, anche in un Paese scettico e diffidente quale è l’Italia, i sentimenti patriottici possano essere sollecitati. I giovani - questa è la risposta - credono solo nel Dio pallone. Vero, ma fino a un certo punto. Proprio sul terreno politico, istituzionale e storico Umberto Bossi ha saputo mobilitare fedelissimi a centinaia di migliaia per immaginarie glorie celtiche e per l’identità d’una favoleggiata Padania. Possibile che un’operazione analoga non possa essere avviata, per l’Unità, dalle tante forze parlamentari e culturali che, a dargli ascolto, sembra spasimino per le glorie risorgimentali? Sì, i problemi sono anche organizzativi e finanziari. In tempi di vacche magre sono più che mai scarse le risorse per iniziative che onorano i morti e i ricordi, senza però soddisfare i perenni appetiti dei viventi. Ma a mio avviso i problemi sono soprattutto politici. La sinistra ostenta rispetto per l’Unità, ma non riesce a dimenticare gli attacchi a un Risorgimento targato (...) (...) monarchia che «tradì» i suoi afflati sociali, e ancor meno può dimenticare che per lei la data fatidica è il 25 aprile. La maggioranza, che si proclama liberale e che dunque dovrebbe trovarsi in totale sintonia con i valori risorgimentali, ha due grossi impedimenti: la Lega, alleata indispensabile che il centocinquantesimo anniversario lo considera giorno infausto; e un certo meridionalismo conservatore e clericale che proclama ai quattro venti le sue nostalgie borboniche e il suo odio per gli usurpatori piemontesi e per i «padri della patria». Sono, questi, elementi che rendono più difficile la vigilia delle celebrazioni, ma che secondo me devono stimolare, non scoraggiare chi ha il compito di organizzarle. Berlusconi disse, quando scese in campo, che «l’Italia è il Paese che amo».

Mi piacerebbe dicesse alto e forte, date le circostanze, che l’amore per l’Italia include l’amore per l’Unità d’Italia.

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