di Carlo Lottieri
Ha già sollevato molte accese polemiche lepisodio della donna di Bergamo che, essendo in coma da più di un anno, è stata licenziata dallazienda produttrice di materie plastiche dalla quale era stata assunta in qualità di operaia. Si può discutere sulla forma (in particolare, sul freddo linguaggio utilizzato nella lettera indirizzata alla dipendente) e certamente, in casi come, questi, sarebbe buona cosa che si facesse ricorso a tutte le precauzioni e le cautele possibili: considerando quale dramma sta vivendo la famiglia e come questo intervento possa collocarsi in un quadro già terribile.
I sindacati che hanno però pensato di cavalcare la vicenda usando toni scandalistici stanno facendo solo bassa demagogia. Perfino secondo le leggi italiane, è il caso di chiarirlo, unassenza dal posto di lavoro che sia causata da una malattia e duri di più di un anno giustifica linterruzione del legame contrattuale. Non c'è stato quindi nessun abuso, ma solo lapplicazione di norme in vigore.
Nel merito, quello che bisogna chiedersi è se il sostegno da dare a una donna che si trova in tali condizioni (e alla sua famiglia) spetti all'azienda: anche se questo può comportare - specie nel caso di attività piccole o piccolissime - andare incontro a difficoltà enormi, che in certi casi possono significare la chiusura. Per quale motivo assumere un lavoratore dovrebbe comportare farsene carico anche in eventualità di questo tipo? È ragionevole che lassistenza ai più deboli venga trasferita, quale onere aggiuntivo, sulle spalle delle imprese?
NellEuropa del diciannovesimo secolo e dei secoli precedenti, le strutture che avevano il compito di soccorrere i più deboli erano tuttuno con la comunità locali. A quel tempo, pur in un quadro di povertà generalizzata e quindi con tutti i limiti che si possono immaginare, una famiglia che si fosse trovata in una situazione analoga sarebbe stata soccorsa dalle parrocchie e dalle società di mutuo soccorso, dalle comunità di villaggio e dalle associazioni caritatevoli. Ancora oggi vi sono casi di imprese che, in casi simili a quello che stiamo esaminando, sanno adottare uno spirito filantropico e sanno andare al di là dei loro impegni contrattuali: nella convinzione che dal rapporto di lavoro sia emerso qualcosa in più e che sia quindi opportuno aiutare in tutti i modi il dipendente in difficoltà.
Si tratta, però, di una generosità che non si può imporre. Specie se si considera che, in questo nostro mondo che ha statizzato assistenza e previdenza, è in larga misura venuta meno la capacità di saper offrire risposte che emergano dal basso, direttamente dalla società civile. Nonostante quello che si dice, lalta pressione fiscale e la forte regolazione di ogni ambito fanno sì che in Italia il volontariato sia ormai poca cosa. Non facciamoci ingannare dalle inchieste demoscopiche e dalle nude cifre degli aderenti a questa o quella associazione. Il dato vero e incontrovertibile è che gli ambiti essenziali della nostra esistenza - dall'educazione all'assistenza, dalla sanità alla previdenza - sono ormai ad appannaggio dello Stato.
Se le cose stanno in questo modo, è allora ragionevole che una situazione come quella della giovane donna bergamasca gravi sulla fiscalità complessiva, e non già sui conti della singola impresa.
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