Uno scenario da brivido. E infatti re Abdullah quasi ci resta. Succede ancor prima delle dimissioni annunciate da Hosni Mubarak ieri sera. Succede giovedì mentre al Cairo sattendono il discorso del Faraone e le decisioni dei generali. Al telefono con lottuagenario sovrano saudita convalescente in Marocco dopo una difficile operazione dernia cè il presidente Barack Obama. Non è una telefonata pacata. Il presidente, confortato dalle analisi errate della Cia, annuncia di voler chiuder il rubinetto degli aiuti allEgitto per favorire il pronunciamento dei generali e accelerare luscita di scena del Faraone. Dallaltro capo del filo un sovrano disperato gli ricorda la necessità di non regalare altri punti a Teheran umiliando un vecchio alleato e gettando nel caos uno dei capisaldi dello schieramento anti iraniano. Infuriato dalla coriacea indifferenza di Obama, re Abdullah si dice pronto a garantire di tasca propria il mantenimento degli aiuti finanziari a Mubarak. Poi appende la cornetta e si accascia sul divano. Per molte ore voci incontrollate lo danno per morto, schiantato da un infarto. Per fortuna è solo un falso allarme, ma rende bene il panico generato dalla inadeguatezza e dalla superficialità con cui lamministrazione Obama gestisce la più grave crisi mediorientale degli ultimi trentanni. Una crisi che minaccia di contagiare i regimi alleati dellOccidente, lasciar assolutamente indenni quelli allineati con Teheran e innescare la reazione di uno Stato ebraico pronto a tutto pur dimpedire alla Repubblica Islamica di conquistare legemonia regionale.
Eccesso di pessimismo? Non proprio. La calma piatta con cui la Siria, il miglior alleato di Teheran, risponde agli appelli alla rivolta diffusi via internet dagli oppositori allestero fa capire come i regimi più severi e repressivi, legati a filo doppio allIran, siano quelli minor a rischio. Lopposizione iraniana nonostante lannunciata discesa in piazza di domani non riuscirà, con tutta probabilità, ad aggirare le capillari misure di prevenzione predisposte dal regime. Una caduta rovinosa di Mubarak rischia invece, come ben sa re Abdullah, di delegittimare lintero sistema di potere egiziano facendo cadere non solo i militari più vicini al ex presidente e al vice presidente Omar Suleiman, ma lintera classe di potere cresciuta allombra del Faraone e dei generali. Uno scenario quasi inevitabile se si continuerà a lasciar mano libera alla piazza senza garantire unordinata transizione e una onorevole pensione alluomo che per 30 anni è stato il simbolo della stabilità del Paese.
Le trame da brivido non si fermano qui. Trascinare nel caos e nellingovernabilità lEgitto significa inevitabilmente far traballare anche Giordania, Yemen e Arabia Saudita. E regalare inaspettate occasione a tutti i gruppi fondamentalisti, dai Fratelli Musulmani ai terroristi di Al Qaida. In Egitto lintero Sinai, ovvero la sponda orientale del canale di Suez, è tormentata da una rivolta beduina su cui sinserisce il contagio di formazioni qaidiste e linfiltrazione dei gruppi che garantiscono il contrabbando di armi iraniane provenienti dal Sudan e destinate a Hamas. Non assicurare più il controllo di quella vitale penisola significa costringere Israele a rispedire lesercito a Gaza per assumere il pieno controllo della frontiera egiziana. A sud dellArabia Saudita la caduta di uno Yemen già infiltrato da Al Qaida e tormentato dalla rivolta delle tribù sciite filo iraniane finirà inevitabilmente con il rendere più instabile anche Riad.
Per garantirsi una piena e totale egemonia regionale Teheran dovrà a quel punto, soltanto accentuare le pressioni su unIrak già sfuggito di mano allamministrazione Obama. Un Irak dove da mesi Moqtada Sadr e le altre formazioni sciite alleate di Teheran condizionano lesecutivo del premier Nuri Maliki.
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