Montreal: sì agli immigrati ma quelli che vogliamo noi

La svolta del Quebec: servono falegnami? Entrano solo stranieri che lavorano il legno. Una politica che fa scuola nel mondo

Montreal: sì agli immigrati ma quelli che vogliamo noi

Il governo del Quebec, provincia francofona canadese, intende d'ora in avanti scegliere gli immigrati in funzione dei bisogni del Paese. Servono infermieri, informatici, gelatai, elicotteristi o elettrauti? Avanti. Ma giusto quelli che servono. Gli altri sono invitati a bussare ad altro indirizzo. Sicché si può dire che è la Svizzera (quella del recente referendum «anti stranieri») che traccia il solco, ma è il Quebec che lo difende. Anche se né la Svizzera né il Quebec possono considerarsi dei veri apripista, sul punto, avendoci già pensato, sia pure con una legislazione più morbida, l'Australia, in passato; gli Stati Uniti, da sempre aperti a un'immigrazione «di qualità», e da ultimi i tedeschi.

La verità è che condividere, quando anche i tori sono tristi, come dice la pubblicità, perché è tempo di vacche magre, è diventato difficile. Torna dunque il dilemma al quale anche noi italiani dovremo infine rispondere: limitare, contenere i flussi migratori? O selezionarli, dicendo addio all'ipocrita melassa umanitaria di derivazione cattolica, ma non solo, che vorrebbe un «avanti c'è posto» generalizzato? L'accoglienza indiscriminata, impiombata com'è dalla limitatezza delle risorse, è ovviamente fuori dalla portata di una seria politica statale. Non resta dunque che il criterio della convenienza («della nostra convenienza -notava giorni fa Angelo Panebianco sul Corriere- per quanto arido o meschino possa apparire a coloro che non apprezzano l'etica della responsabilità»). In Quebec hanno scelto. Il recente progetto di legge vuole introdurre criteri più rigidi per «la francesizzazione, la regionalizzazione e l'integrazione nell'impiego». Con il nuovo sistema ogni candidato dovrà presentare una dichiarazione e soddisfare un certo numero di criteri. Solo in funzione dei suoi bisogni economici, il Quebec farà la sua scelta e solo dopo il candidato scelto (80 mila le richieste in attesa su una popolazione di quasi 8 milioni di abitanti) potrà presentare una «richiesta formale di immigrazione».

Sembra passato un secolo -mezzo è passato davvero, però- dalla scena di cui chi scrive fu testimone da ragazzino. Eravamo al porto di Messina. L'anno: il Cinquantasei, o forse il Cinquantotto del secolo scorso. Ormeggiato alla banchina, un piroscafo diretto in Australia. Gran sventolare di fazzoletti, e pianti, e risa, e promesse, e raccomandazioni, e cuori infranti, sia a bordo che a terra; e urla, e strepiti, fino al lugubre, lancinante, definitivo suono di sirena; e in men che non si dica la nave è già al largo, e fra poco doppierà la statua della Madonnina che sorveglia col suo «benedicimus…» l'imboccatura del porto. A bordo, fra gli altri, anche una coppia di fratelli strombolani che le scarpe, quelle che calzavano per il gran viaggio, le avevano avute in regalo dal brigadiere comandante dell'isola. Si andava facile, una volta, e non c'era neppure bisogno di rischiare la pelle su un barcone, come oggi. Partivano senza sapere una parola d'inglese, quelli diretti in Australia o in America del Nord, o di spagnolo, per quelli che scommettevano sull'Argentina. E dopo una decina d'anni arrivavano lettere come quelle spedite dai due fratelli strombolani, contenenti foto che li ritraevano davanti al loro negozietto di frutta e verdura; e dopo altri dieci anni, eccoli ai piedi di un Piper, in procinto di partire per una battuta di caccia in Nuova Zelanda... Non è più così da un pezzo. Il mondo, anche quello che si chiamava «Nuovo Mondo» non ha più bisogno di manodopera generica.

Basta e avanza quella che prorompe dal Terzo, di Mondo, e che si cerca di arginare, gli americani col filo spinato, noi (passati dal ruolo di esportatori a quello di importatori di migranti) con i guardacoste, le navi da guerra e i lager in Sicilia, la Svizzera coi referendum all'agro. Meglio il Quebec, allora.

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