Lo spettro della pena di morte torna ad aleggiare sulla testa dei marò. La polizia antiterrorismo indiana ha consegnato lunedì sera il rapporto sull'inchiesta contro Massimiliano Latorre e Salvatore Girone con l'accusa di aver ucciso due pescatori scambiati per pirati nel febbraio 2012. Gli investigatori della Nia caldeggiano, secondo il giornale Hindustan Times, l'applicazione di una legge che prevede la pena di morte.
In marzo il governo indiano per bocca del ministro degli Esteri, Salman Khurshid, aveva escluso la possibilità del patibolo. Ci si attende che il giudice riduca la portata delle accuse escludendo la pena di morte, ma è indubbio che gli indiani, ancora una volta, ci assestano un colpo sotto la cintura. Loro giocano duro e noi facciamo i diplomatici sposando il basso profilo, totalmente incapaci di battere i pugni sul tavolo.
Il quotidiano Hindustan Times rivela che la Nia «ha raccomandato per i marines italiani l'applicazione del Sua act, una legge che prevede la pena di morte». La norma sulla sicurezza della navigazione, approvata nel 2002, è molto chiara all'articolo 3: «Chiunque provochi la morte in mare di altre persone deve essere punito con la pena capitale». Ironia della sorte la legge indiana è stata fortemente voluta per reprimere la pirateria. Se fosse applicata ai marò, imbarcati su una nave italiana per contrastare la minaccia dei pirati, sarebbe tragicomico.
Gli investigatori hanno consegnato il rapporto, che chiude l'inchiesta, al ministero dell'Interno, che sul caso Latorre e Girone non va d'accordo con quello degli Esteri. Ed era stato il capo della diplomazia di Delhi, Kurshid, ad assicurare all'Italia che la pena di morte non sarebbe mai stata applicata.
Secondo l'Economic Times, un altro giornale indiano, il ministero dell'Interno si è trovato «in imbarazzo» con la patata bollente dell'antiterrorismo sulla pena capitale. Il ministro ha intenzione di chiedere un parere sui capi d'accusa contro i marò alla procura generale.
«Il caso (dei marò) non ha le caratteristiche di un crimine punibile con la morte», ha dichiarato ieri all'agenzia Ansa, Syed Akbaruddin, portavoce del ministero degli Esteri indiano. La responsabile della Farnesina, Emma Bonino, ha preso la palla al balzo sostenendo che il rischio della pena capitale «è già stato ufficialmente escluso». La diplomazia indiana, però, sembra tagliata un po' fuori dagli ultimi sviluppi. Alla fine sarà il giudice del tribunale ad hoc previsto per i marò, che deciderà i capi d'accusa da contestare agli imputati e quali leggi applicare nel processo vero e proprio.
L'inviato speciale del governo italiano, Staffan De Mistura, ha definito la possibilità che venga chiamata in causa la pena capitale «inconcepibile e neppure da prendere in considerazione». Da poco rientrato dall'ennesima missione in India ha dichiarato: «Avevo già detto che la Nia poteva essere tentata di alzare il tiro, ma conta la posizione del giudice e delle autorità indiane. A quel punto abbiamo le nostre mosse e contromosse». Non è chiaro quali siano, ma per il momento i fatti parlano chiaro: Latorre e Girone sono da 648 giorni trattenuti in India, la sciagurata decisione di riconoscere la giurisdizione indiana sta portando a tempi sempre più dilatati e a un processo tutto in salita. Anche se la Nia l'ha sparata grossa con la pena di morte e verrà ridimensionata, i marò non possono certo accontentarsi di salvarsi il collo magari beccandosi 10 o più anni di galera.
Nulla è certo, soprattutto in vista di una campagna elettorale infuocata per il voto nazionale di maggio, che rischia di coincidere con il processo. Altro che ritorno a casa a Natale, con una condanna lieve, come si sperava.
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