Il Fai s’inventa la gita a San Vittore

Il Fai s’inventa la gita a San Vittore

Il prossimo weekend si potrebbe andare in gita a Villa Taranto sul Lago Maggiore a vedere gli oleandri e le forsizie in boccio. O andare a visitare villa Necchi Campiglio in via Mozart. Oppure, tra un pasticcino e una partita a burraco, andare a visitare quell’orrore che si chiama San Vittore: questa è l’ultima trovata del Fai, il fondo italiano per l’ambiente, specializzato in meritorie riscoperte e tutele di bellezze ambientali e architettoniche. All’elenco dei beni culturali del paese, il Fai aggiunge a sorpresa il vecchio e malandato carcere di piazza Filangieri. Nelle stesse giornate - ovvero sabato 24 e domenica 25 febbraio - in cui verranno aperti al pubblico musei e pinacoteche, gli iscritti al fondo potranno visitare la casa circondariale, «osservando la struttura carceraria dal punto di vista storico e architettonico». I gitanti verranno accompagnati da «un ufficiale cui sarà affidato il racconto di come si svolge la vita a San Vittore».
Ne vale la pena? Francamente no, a meno che ad attirare i soci del Fai sia la curiosità un po’ morbosa per vedere gli uomini in gabbia. Perché se si parla solo di storia e di architettura, San Vittore non ha niente di appassionante. Un casermone ottocentesco, ristrutturato nel corso dei decenni senza rispetto - anche perché non c’era nulla da rispettare - e che oggi è solo un monumento alla bruttura e al degrado, ambientale ed umano.
Dei sei raggi della «casanza», due sono addirittura chiusi perché pericolanti ed irrecuperabili. Negli altri quattro sta pigiata una umanità disperata, che nessuna colpa potrebbe legittimamente costringere a vivere in queste condizioni. Al sesto raggio vivono sei detenuti in celle da due metri, sempre sdraiati come polli in batteria, perché non c’è lo spazio per alzarsi tutti insieme. Il comunicato non spiega se la comitiva del Fai potrà vedere con i suoi occhi queste brutture, o se invece dovrà accontentarsi del racconto dell’ufficiale della «penitenziaria». Visto il numero consistente dei visitatori (quattrocentocinquanta, divisi nei due turni) e i relativi problemi di sicurezza, difficilmente ci sarà un contatto diretto. Ma i soci del Fai sappiano che, se loro non vedranno i detenuti, invece i detenuti vedranno loro, perché a San Vittore nulla accade che non sia subito notato. E non servono grandi sforzi per immaginare quanto gradiranno, i detenuti, quella gita sul luogo delle loro sofferenze.
Si badi: al carcerato medio, chiuso in un microcosmo abbastanza totalizzante, fanno piacere i segnali di attenzione, anche i più blandi, che vengono dall’esterno. Alla condizione, però, di potersi esprimere, di poter lanciare un messaggio: a volte politico, a volte semplicemente umano. Di sentire da lontano lo scalpiccio delle Hogan, invece, verosimilmente non sanno che farsene. Nè di essere sbirciati come scimmie allo zoo.
Sullo sfondo della pensata del Fai, in realtà, si agita una questione che da tempo si trascina, che è il ruolo che una presenza ingombrante come quella di San Vittore ha nel panorama cittadino: una struttura mastodontica, a ridosso di una delle zone più chic della città, visibile eppure invisibile in quanto rimossa dall’immaginario collettivo. I progetti di spostare il carcere fuori Milano - che regolarmente riaffiorano e regolarmente naufragano - sono stati più volte accusati di voler liquidare questa contraddizione, allontanando una volta per tutti dagli occhi dei milanesi una struttura che da sempre preferiscono non vedere, perché racconta il lato oscuro della società e dell’individuo. Da questo punto di vista, strutture carcerarie come Bollate ed Opera sono l’ideale, perché le si intravvede solo dalla tangenziale e dall’autostrada, parallelepipedi anonimi, e si può quindi fingere che nemmeno esistano. Invece San Vittore incombe coi muraglioni e le torrette sulla via del mercato del sabato e sui caffè eleganti.

Quindi la sua rimozione dall’orizzonte cittadino è grave, e se Milano imparasse a conoscerlo e a farci i conti non sarebbe un male. Ma non in nome dell’architettura o della storia, né per fare del turismo carcerario un po’ lugubre, come quelli che tornano dalle vacanze con le magliette «Sono stato ad Alcatraz».

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