Laura Verlicchi
La riforma del diritto fallimentare è un progetto innovativo, ma penalizzato da troppe contraddizioni interne, che rischiano di frenare lazione soprattutto della figura chiave, il curatore. È la sintesi del parere che il Consiglio nazionale dei ragionieri, insieme a quello dei dottori commercialisti, ha inviato alle commissioni parlamentari di Giustizia e Bilancio che stanno esaminando lo schema di decreto legislativo. Ne parliamo con il vicepresidente del Consiglio nazionale ragionieri, Francesco Distefano.
Limpianto complessivo della riforma è condivisibile, a vostro avviso?
«La filosofia del nuovo diritto fallimentare è quella di imprimere un impulso imprenditoriale alle aziende in crisi perché ripartano, sia pure con una proprietà diversa, se necessario. Questo esige però una gestione manageriale che mal si riscontra nella funzione del giudice delegato: è invece il compito proprio del curatore. Ma anziché affrancarlo da eccessi burocratici lo si è ulteriormente impigliato in una serie di autorizzazioni e controlli, a cominciare dalla richiesta di autorizzazione che spesso si trasforma in una sorta di ping-pong tra giudice e comitato dei creditori, laddove prima era sufficiente rivolgersi al giudice. Ne derivano lungaggini che contrastano con lobiettivo della legge, quello di accelerare le decisioni del curatore».
A cui dovrebbe essere concessa più autonomia, dunque?
«Lo spirito dichiarato della legge è questo: ma va detto che il curatore, per quanto importante sia il suo ruolo, non è un giudice. Questo rende più facile la contestazione delle sue scelte, cosa che spesso avviene soprattutto da parte dellimprenditore fallito, dal momento che la stessa legge lha affrancato da certi vincoli che erano anacronistici, a nostro avviso, solo in parte. Il risultato è che, mentre in passato per opporsi alle decisioni del giudice era necessaria limpugnazione della sentenza, cioè unazione giudiziaria, questo non è più necessario quando si tratta del curatore, la cui azione è solo amministrativa».
Ma comunque autorizzata dal giudice.
«In realtà la legge ha fissato minuziosamente il campo dazione del curatore, esplorando le soluzioni e le scelte che può mettere in atto con analiticità perfino eccessiva. Sarebbe stato più opportuno dare la possibilità di utilizzare ogni strumento ritenuto utile, eventualmente con unautorizzazione volta per volta, anziché pretendere di prevedere tutte le soluzioni. Tanto più che spesso si tratta di strumenti che hanno dato risultati magari eccezionali ma solo nei singoli casi in cui sono stati applicati e non possono quindi essere generalizzabili. Ancora una volta, anziché dare mano libera, si è preferito ingabbiare: quasi come se gli stessi legislatori non credessero fino in fondo nella figura del curatore, che pure ha un ruolo centrale nella riforma».
E questo da che cosa dipende?
«Qui hanno prevalso gli interessi dei soggetti forti, soprattutto le banche. Ma una crisi aziendale in realtà coinvolge interessi più ampi, dal mercato ai consumatori, tra i quali è indispensabile garantire gli equilibri. Proprio a questo scopo abbiamo proposto, nel documento inviato alle commissioni parlamentari, quattro modifiche al decreto legislativo, che riguardano appunto la figura del curatore».
Di che si tratta?
«Anzitutto, dei suoi requisiti professionali. La legge infatti ha esteso la possibilità di accedere allincarico di curatore, riservato finora ai professionisti (avvocati, ragionieri e dottori commercialisti), anche a imprenditori che hanno svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo nelle Spa. Ma a nostro avviso occorre limitare lincarico a chi ha operato in quelle realtà societarie - Spa aperte e quotate - che per dimensioni e complessità delle strutture, oltre che per la natura degli interessi coinvolti, richiedono il possesso di particolari capacità manageriali. Inoltre, chiediamo di mantenere in capo al giudice delegato il potere di autorizzazione degli atti di straordinaria amministrazione, dando loro quindi un valore giudiziale.
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